admin
Posts by :
Estinzione o non estinzione? La fragile umanità smarrita del Covid
Emanuele Aldrovandi, autore e regista de “L’estinzione della razza umana” visto al Franco Parenti, è abituato a misurarsi con la faccia sporca della nostra contemporaneità, vedi le non poche pièce precedenti dedicate a problemi come migranti, famiglie malate, solitudini, ecc. Qui si confronta con la pandemia, tema scivoloso politicamente e artisticamente e che socialmente ha relegato buona parte dell’umanità in uno stato di emergenza senza fine con lunghi periodi di reclusione nella propria abitazione. Mentre, a distanza di poco più di due anni dalla fine dell’ultimo confino, stiamo ancora provando a capire i danni che questo status emergenziale con l’interruzione di molte attività economiche ha comportato per noi – famiglie, imprenditori, lavoratori –, Aldrovandi ha bruciato sul tempo i colleghi e già durante il confino ha scritto una pièce dedicata all’assurdo quotidiano di quel periodo.
Rieccoci in quei giorni, quindi, in un tetro condominio-galera in cui le vite di due coppie si scontrano per le condizioni di reclusione imposte da uno strano virus che trasforma le persone in simil-tacchini. Eh sì, umanoidi con penne e becco, con difficoltà respiratorie che provocano anche la morte. Una scelta interessante di arpionare esteticamente il virus ma che, a ben vedere non verrà sviluppata a dovere nel resto della pièce. In questo clima di terrore, uno dei quattro, un pubblicitario, vuole andare a correre violando l’ultimo decreto che impone il confino domestico. L’uomo vuole respirare un po’ d’aria fresca e sgranchirsi le gambe, ormai “radici di un albero”.
Per sua sfortuna incontra nell’androne del palazzo, reso nella scenografia come una prigione, con pareti-inferriate come una gigantesca gabbia comunitaria, il marito di un’altra condomina, un geometra impaurito e ossessionato al contrario dal virus, e deciso a impedirgli di violare il decreto e a gustarsi quella mezzora di libertà. Tra continue consegne di acquisti online (anche questo retaggio della pandemia) da sterilizzare maniacalmente e goffi tentativi di spiegarsi a vicenda, l’irruzione delle rispettive compagne scatena il patatrac: una è un’attivista green e pro tempore cantante da balcone ma soprattutto disperata al punto di sognare l’estinzione dell’uomo; l’altra è un’ostetrica ultrareligiosa che ha appena avuto una bambina. Inevitabile lo scontro, che coinvolgerà anche i mariti fino al finale.
La pièce si sviluppa in una sola scena e in un unico tempo/azione. Tutto ruota intorno al fatto di violare o meno un decreto che riguarda l’ordine pubblico e questo pone allo spettatore una scelta. Identificarsi col pubblicitario libero pensatore, individualista e un po’ stronzo, oppure col geometra-pecora ingabbiato nei suoi schemi mentali e nelle sue fobie. E dall’altra parte, con la lotta disperata dell’attivista un po’ isterica o con la gioia fanatica (e quindi sospetta) dell’ostetrica zelota. Insomma, un’umanità smarrita e desolante.
Aldrovandi articola il doppio dilemma con i consueti dialoghi ben congegnati e situazioni assurdamente comiche. In questo clima surreale, ma che in fondo è proprio quello che abbiamo vissuto solo due-tre anni fa, riviviamo la violenza con cui il virus e la risposta dello Stato, hanno deviato per sempre il corso delle nostre vite, come una colata lavica. Irrimediabilmente? Forse perché ha intinto l’inchiostro durante la pandemia, l’autore, che firma pure una regia pulita ma senza colpi di scena, si incarta nei gorghi dialogici conflittuali, che occupano tutta la seconda parte dello spettacolo, con fiumane di paroloni e urla, alla fine stringhe e fasce dei guantoni per un incontro di boxe tra perdenti, portato troppo in là dai pur bravi attori. “L’estinzione della razza umana” si dimostra nel complesso una pièce acuta scritta da un autore bravo ma che qui non sembra aver guadagnato la necessaria distanza per operare una sintesi più appuntita del materiale, fondamentale per scelte di regia e esodi drammaturgici più puliti e incisivi.
Contro i visi (e cuori) pallidi, il teatro politico di Christiane Jatahy
“Dopo il silenzio” (Depois do silêncio) è l’ultimo lavoro della “Trilogia degli Orrori” di Christiane Jatahy, drammaturga e regista brasiliana associata al Piccolo Teatro e apprezzata in Italia anche in virtù del Leone d’Oro alla carriera all’ultima Biennale veneziana. L’abbiamo visto in scena al Piccolo Teatro Studio Melato, palcoscenico ampio e profondo, adeguato ai topoi teatrali dell’autrice. Sì perché il lavoro di Jatahy consiste nel trapiantare – grazie a una tecnica che prevede un impasto originale di mixed media: video, musica e recitazione – sulla scena l’altrove della lacerata contemporaneità brasiliana. Un’operazione iperrealista per condensare e amplificare in una storia una situazione di grande sofferenza umana e civile.
Un altrove diverso da quello che comunemente si sa del Brasile, che deve far capire allo spettatore occidentale che in quel sterminato paese il popolo è assediato. Già ma quale popolo e da chi o cosa? Non quello di Bolsonaro, presidente uscente, bersaglio esplicito della pièce. Non i bianchi e ricchi latifondisti locali che da sempre detengono le leve dell’economia e del potere. Ma gli indios e i neri, gli eredi degli schiavi (4 milioni ne arrivarono in Brasile dall’Africa, ricordano i narratori) che lo sono ancora de facto per la miseria e lo sfruttamento patiti.
In un palco spoglio, con solo un paio di scrivanie che alludono a cattedre per questa lezione teatrale di anticolonialismo, dietro ai quattro attori si staglia un grande schermo diviso in tre parti che occupa il fondale della scena. I 4 interpreti, 3 donne e un uomo (Gal Pereira, Juliana França, Caju Bezerra, Aduni Guedes), dopo il prologo drammatico commentano e raccontano le scene del docufilm proiettato alle loro spalle, con al centro membri delle comunità di Remanso e Iúna – Chapada Dimantina/Bahia/Brasile: uomini e donne che ricordano i “villani” di Nuto Revelli nel primo dopoguerra. La vicenda prende forma dal romanzo Torto Arado (Aratro ritorto) di Itamar Vieira Junior – che narra le battaglie di tre donne nello stato di Bahia –, e dal documentario di Eduardo Coutinho, Cabra marcado para morrer (Un uomo segnato dalla morte), dedicato all’omicidio del leader di un sindacato rurale.
Il video panoramico ha un effetto quasi immersivo, forse per aumentare nello spettatore l’urgenza di una scelta di campo. Solidarizzare con la storia insanguinata e reale qui narrata o respingerla, tertium non datur. È il salto della tigre a cui allude Walter Benjamin in una delle sue Tesi di filosofia della storia, in cui avverte come non esista una storia oggettiva ma solo quella, conflittuale, di oppressori e oppressi.
Spiando i volti dei presenti in sala si ha l’impressione che buona parte del pubblico sia alle prese proprio con un conflitto interiore, e qui torniamo alla questione del popolo. I poveri contadini sfruttati di Diamantina (e i milioni di loro compaesani nel resto del Brasile, ma potremmo scrivere dell’America Latina in blocco e non cambierebbe molto) nulla hanno a che fare con la distrattiva querelle intorno al “popolo italiano”, popolo (ma esiste ancora? È mai esistito?) che, al fondo, nel complesso non può certo dire di vivere una situazione paragonabile a quella vissuta dalla gente di Diamantina.
La battaglia di Jatahy è quindi doppia: dare voce, resistenza e memoria alla storia passata e presente delle comunità indigene (Yanomami e altre) e nere brutalizzate dal potere, e risvegliare nello spettatore la scintilla della consapevolezza: “Ehi turista, ecco il deep country, il paese profondo, che soffre mentre tu ti fai i selfie sulle spiagge!”. Tutti noi, bianchi urbani e acculturati di ogni paese, ci scopriamo sgradevolmente dalla parte degli eredi e continuatori del colonialismo. È lo scotto da pagare allo spettacolo, che tratta da complice chiunque accetti il sistema e ne faccia parte, anche maldestramente, rispetto a ai reietti di Bahia, gente da espellere anche fisicamente dalla società.
La nostra colpa è di sorvolare sul silenzio degli oppressori non parlando di quella che, in altri contesti, è stata chiamata una “politica genocidaria” verso il popolo brasiliano. Il silenzio sanguinoso degli indios è invece quello della loro lingua strappata dalla violenza neocolonialista, che reprime da sempre ogni tratto identitario nativo. L’aspetto fisico, la cultura, la musica, le parole… tutto è brutalmente estirpato dai pronipoti dei conquistadores europei. Al tempo, i primi a instaurare il cristianesimo come religione unica soffocando il panteismo naturale dei nativi. E i cui eredi, oggi, impongono una pan-globalizzazione – estetica, religiosa, economica, sociale: in breve, politica – ai danni dei loro pronipoti.
Questo silenzio drammatico, di stasi, è rotto dalla rabbia, cantata e urlata dai 4 interpreti, per interrompere la dolente rassegnazione dei contadini, chiamati a destarsi e a ritrovarsi uniti nella memoria degli uccisi in nome della lotta per non farsi scacciare dalle terre e per mantenere la cultura degli antenati. Lo spettatore non vorrebbe essere nei panni dei vinti ma non può non avvertire che la “loro” umanità derelitta sprigiona una grazia che noi occidentali forse abbiamo smarrito per sempre. Jatahy sembra esplorare in scena la poetica di Terrence Malick, abile nel saper colorare il mondo con lo sguardo dei ragazzi e degli indios in due suoi film recenti (The Tree of Life e The New World): creature innocenti prima (o nel mentre) di perdere l’innocenza.
Ed ecco l’epifania dello spettacolo: far sentire noi i veri sconfitti, rimpiccioliti dal nostro sguardo afflitto di gente che vive in un mondo sempre più ostile e invivibile senza uno straccio di forza e visione per cambiarlo. La comunità derelitta e forzatamente anti-tecnologica dei contadini appare paradossalmente più in salute e integra della nostra, imprigionata nel gorgo solipsista hi-tech. Cucina comunitaria, musicoterapia sciamanica (il Jaré), amore per la natura e la vita e cura reciproca, trionfano contro moltitudini-solitudini governate da device gerarchizzanti e da riti edonistici fini a se stessi.
Questo (e molto altro) è Depois do silêncio, opera che prova a spiegare che c’è comunità solo se a fondarla è una lotta condivisa. La politica torna al centro perché agli indios e ai neri interessa vivere liberi e sovrani, contro uno stato che li minaccia e uccide (come i due attivisti da cui parte lo spettacolo, assassinati dai sicari padronali).
La miscela docufinzionale di Jatahy viene fatta detonare in scena dai quattro narratori, che mischiando alla storia le loro vicende personali, vere o inventate poco importa, scardinano le nostre difese. Il viso pallido (nomignolo ottocentesco degli indiani nordamericani per i bianchi) non può non avvertire di essere lui quello privo di una comunità funzionale, di non avere un progetto difendibile, una cultura forte e una lingua vivente. Il viso e cuore pallido ha accettato che la modernità cancellasse ogni tratto identitario e autentico di sé e dei popoli sottomessi. Depois do silêncio ci scuote ricordandoci che la lotta non è finita e non finirà mai, “anche a costo di dover uccidere”. Finché la terra non sarà restituita e giustizia fatta. La nuova utopia è dolore, carne, lotta, parole e musica. E uno strano sentore di disperata felicità. E anche lo spettatore-indio ha la sua possibilità di riscatto e rinascita, a patto che rompa il silenzio diventando membro solidale delle ultime comunità native del globo.
Depois do silêncio (Dopo il silenzio)
di Christiane Jatahy
dal romanzo Torto Arado di Itamar Vieira Junior, pubblicato da LeYa
ideazione, regia e testo: Christiane Jatahy
con Gal Pereira, Juliana França, Caju Bezerra, Aduni Guedes e, per il film, la partecipazione di Lian Gaia e dei residenti delle comunità di Remanso e Iúna – Chapada Dimantina/Bahia/Brasile.
Collaborazione artistica, scene e luci: Thomas Walgrave
foto e video: Pedro Faerstein
musica originale: Vitor Araujo e Aduni Guedes
sound design e mixing: Pedro Vituri
suono (film): Joao Zula
montaggio (film): Mari Becker e Paulo Camacho
costumi Preta Marques
collaborazione al testo Gal Pereira, Juliana França, Lian Gaia e Tatiana Salem Levy
interlocuzione Ana Maria Gonçalves
sistema video Julio Parente
preparazione fisica Dani Lima
assistente alla regia Caju Bezerra
direttore di scena e del suono Diogo Magalhaes
assistente alle luci Leandro Barreto
direttore video Alan de Souza
tour manager Claudia Marques
amministrazione Claudia Petagna
direttore di produzione e distribuzione Henrique Mariano
sono presenti riferimenti e immagini da Cabra marcado para morrer di Eduardo Coutinho, produzione Mapa Filmes
produzione Cia Vertice – Axis productions
coproduzione Schauspielhaus Zürich, CENTQUATRE-Paris, Odéon-Théâtre de l’Europe – Parigi, Wiener Festwochen, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, ArtsEmerson – Boston, Riksteatern – Svezia, Théâtre Dijon-Bourgogne CDN, Théâtre National Wallonie- Bruxelles, Théâtre Populaire Romand – Centre neuchâtelois des arts vivants La Chaux-de-fonds, DeSingel – Anversa, Künstlerhaus Mousonturm – Francoforte, Temporada Alta – Festival de tardor de Catalunya, Centro Dramático Nacional – Madrid
Christiane Jatahy è artista associata a CENTQUATRE-Paris, Odéon-Théâtre de l’Europe, Schauspielhaus Zürich, ArtsEmerson Boston e Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Cia Vertice è supportato dalla Direction régionale des affaires culturelles Île-de-France – Ministère de la Culture France
Tour realizzato con il sostegno di CENTQUATRE on the road
Fallimento e rinascita del teatro (e della scrittura) secondo Davide Carnevali
Per addentrarci nello spaesamento originato dalla visione di “Ritratto dell’artista da morto – Germania ’41 e Argentina ‘78”, scritto e diretto da Davide Carnevali e in scena al Piccolo Teatro Studio Melato fino al 6 aprile, partiamo da questo brano dell’introduzione allo spettacolo scritto dall’autore: “Scrittura come tentativo continuo di descrivere l’indescrivibile; scrittura come un perpetuo fallimento di se stessa. Eppure, nonostante la consapevolezza di questo fallimento, non riesco a smettere di scrivere. Forse è perché è proprio il fallimento ciò che ha senso in questa scrittura. Forse il teatro mostra che la scrittura è destinata a fallire di fronte alla vita; ed è per questo che la scrittura non può essere ignorata, non può essere esclusa dalla vita”.
La cosa all’apparenza buffa, è che la scintilla da cui parte l’idea creativa, spiega Carnevali aprendo il fondo, ammesso che ne esista uno, della sua scrittura, arriva da un gol, così bello da uccidere le parole, di Leo Messi, el diez dell’Argentina Campione del Mondo. Naturalmente la scintilla è tutt’altro che buffa… è solo molto argentina, un paese che più di altri sprofonda nel reale e nel verosimile in maniera ondivaga: sacra e profana, alta e bassa, senza mai la pretesa della verità risolutiva, della vocazione univoca. Il più bel gol di Messi può valere l’Aleph di Borges o i racconti soprannaturali di Julio Cortazar, o i fantasmi di Ernesto Sabato. E in questo paradosso c’è la prima traccia dello spaesamento che sorge dall’allegra tristezza dell’alma argentina e dello spettacolo di Carnevali, che è quindi un interessante fallimento parafrasando le sue parole.
Ora, resta da capire se questo fallimento interessante sia anche necessario. “Ritratto dell’artista da morto” può essere inquadrato come un’allegoria barocca (il riferimento alla tesi di Walter Benjamin è voluto) ma al posto del dramma barocco tedesco bisogna metterci la Storia – due cruente dittature novecentesche: nazifascismo in Europa e dittatura dei militari nel paese del sole che ride – e l’anima argentina nella sua concrezione rioplatense, ovvero quella coagulatasi intorno al Rio de la Plata, il gigantesco estuario dei fiumi Uruguay e Paranà tra Buenos Aires e Montevideo-Uruguay: bagnata da un’acqua infinita di un colore tra il marrone tabacco e l’azzurro polare.
Da Montevideo proviene una delle versioni più riuscite e celebrate dell’autoficción (quella di Sergio Blanco per intenderci), e guarda caso l’auto-finzione è la cifra strutturale e stilistica della pièce di Carnevali. Michele Riondino, monologante in scena, parte (e torna) sempre da se stesso, dal suo essere un attore con un’identità luminosa ma sgualcita, un fallito di successo insomma: attore televisivo di un’opera mainstream come Il giovane Montalbano e al contempo incazzato militante, compagno di lotte perdenti dei suoi conterranei tarantini per l’ex Ilva.
Venendo alla scenografia, nella parte posteriore del palco c’è un appartamento semplice, una parete verdognola con uno spazio sverniciato rettangolare, una scrivania di legno chiaro, una poltrona di design nordico anni ‘40 di colore blu; e poi una cucina, uno stendino con dei panni, una libreria con spartiti musicali e una videocamera. A sinistra, un pianoforte e nel grande ovale antistante alcune casse di legno di scena, che rafforzano l’idea della precarietà e della riscrittura. L’onnipresenza della videocamera aiuta a collocarci bene nel nostro tempo, che è quello dell’autorappresentazione tramite video. Carnevali già nei suoi lavori precedenti (“Ritratto di donna araba che guarda il mare” ad esempio) ha usato il video live e i modellini di scenografia miniaturizzata per giocare con uno sguardo che si innalza e oggettiva la vicenda.
Riondino racconta la “sua” storia verosimile, resa più accattivante dalla scelta della detective story: da un misterioso telegramma ricevuto “realmente” durante un soggiorno a Milano, decide con Carnevali (che ha vissuto a lungo in Argentina), di volare a Buenos Aires per scoprire cosa c’è dietro la stranissima querelle legale intorno a un appartamento conteso tra un certo Reondino e una famiglia locale. Il monologante racconta l’esperienza a Buenos Aires come se il pubblico non sapesse nulla o quasi della questione dei desaparecidos e della dittatura. Torna indietro nel tempo, al 1978, a quando si giocò il Mundial di calcio e l’Argentina dei generali vinse il torneo tra le polemiche, perdendo l’unica sua gara contro la nazionale italiana.
Il pasticciaccio diventa brutto, Riondino va avanti nel racconto giocando col suo personaggio del commissario televisivo: dice di essere stato scortato da un tenebroso poliziotto a bordo di una Ford riverniciata di rosso ma in realtà verde, proprio come quelle usate dai militari per prelevare gli oppositori, e da questo viene controllato (così come dalla vicina e dal portinaio dello stabile). Nella casa, in cui si reca tutti i giorni restandoci a lungo, non trova tracce di Reondino ma di un compositore, un certo Gianluca Misiti, che risulterà essere un espatriato italiano fuggito dall’Italia per le sue origini ebraiche e poi scomparso nel 1941, forse catturato. Riondino non capisce la relazione tra la casa, se stesso, il donatore scomparso Reondino, e il compositore, tra il 1978 e il 1941. Ma avverte un clima di mistero e sospetto.
In questo clima (non) scopriremo chi è veramente Misiti, e quale relazione ci sia tra l’autore, l’interprete e il pubblico, chiamato in scena nel finale per toccare con mano, smettendo di assistere passivamente, la consistenza della rappresentazione. Ma qui ormai siamo in un gioco di paradossi simile a quello creato dal borgesiano Zahir, l’illusionista che convince gli altri della sua esistenza. La sfida di Carnevali-Riondino è farci credere a questa relazione postuma con la Storia, e con due dittature. Farci credere che scendendo in scena, facendo parte della rappresentazione il pubblico possa dare più legittimità al fallimento della trasmissione del dato storico. Ora, cerchiamo di capire se la ragione del fallimento della scrittura e della legittimità della pièce sia quella chiamata in causa dall’autore – “Scrittura come tentativo fallimentare di descrivere l’indescrivibile” –: il gol di Messi, la relazione del monologante-questionante con un appartamento in Buenos Aires. Scrittura come tentativo fallimentare di intessere una relazione con la Storia e il passato. Carnevali e Riondino, chiamando in causa il pubblico e annunciando la morte del regista, provano a rendere questo fallimento vivente, ovvero una relazione – LA relazione fondativa dell’essere teatro.
Ancora con le parole di Carnevali sul testo: “Solo in teatro risulta evidente che la parola è una cosa e ciò che avviene è un’altra; ed è evidente, dunque, che il linguaggio non aderisce perfettamente alla realtà: anzi è, esso stesso, una realtà a sé. E solo in teatro lo spettatore fa un’esperienza reale di questa evidenza. Ma perché sia evidente questa insufficienza del linguaggio verbale, perché la parola fallisca, è ancora necessario che ci siano linguaggio e parola. Un linguaggio che prova a dire ciò che non può essere detto e una parola che si offre e si ritira, che lotta e viene sconfitta. Ecco perché è interessante che il teatro passi ancora per il testo, materiale linguistico preteatrale, prodromo allo spettacolo: affinché sulla scena la parola possa morire nella sua testualità e risorgere nella sua performatività”.
Una lunga chiosa in cui Carnevali, senza dirlo, afferma che il teatro è una forma di “sapere” antagonista al logos (storico), perché tiene conto della parola che scompare, che muore mentre avviene. E questo spiega anche l’allegra tristezza che proviamo uscendo dal suo spettacolo, con l’occhio e l’anima convinti di aver trovato qualcosa ma senza la capacità di individuarlo e farne parola. Non certo la verità sulle dittature e neanche la consolazione che sapendole già state, esse non accadranno mai più. Non siamo certi che Carnevali-Riondino sia riuscito a fondare una relazione necessaria tra il 1978 (Argentina dittatura) e il 1941 (Europa nazista): c’è chi ha lavorato sulla memoria con altri presupposti e con enormi cautele e precauzioni (uno su tutti: Marco Bechis, che ha scritto e fatto docufilm rigorosi sulle dittature, tra cui “Il rumore della memoria”, documentario in cui Vera Vigevani Jarach narra la sua storia di ebrea italiana fuggita in Argentina nel 1938 per le leggi razziali, e poi di madre di un giovane desaparecido: ma anche Bechis è un desaparecido scampato, fuggito da Buenos Aires poco prima di finire nella rete dei militari). Non siamo sicuri e probabilmente neppure lui, e forse per questo sceglie di morire nel testo. La machine téatrale autofinzionale galoppa e si avvita su stessa senza più regia, come un gorgo del maelstrom, rivelando quello che è il suo vero scopo. Non dire qualcosa in più sulla Storia, per quanto l’interesse per essa appare autentico, sincero. Carnevali forse sa e ammette di non potersi relazionare veramente con la storia se non tramite il teatro. Ma che cos’è il teatro per lui?
A Carnevali interessa il teatro come luogo di confine, come ring in cui la scrittura rivela un sapere ambivalente, prelogico e allo stesso tempo postumo. Un teatro in cui il sapere gronda dal sacrificio dell’ego, dell’io scempiato in scena, anche se qui si sorride, forse è un sacrificio metaforico, non cogente. La pièce termina con la fondazione di un’istituzione museale, con una metamorfosi dell’appartamento. Ovvero con la sua reificazione, con la trasformazione in cosa eterna ma fredda. Carnevali, lo ripetiamo, non pare interessato a questo, alla trasmissione viva della storia: quanto alla storia che rinasce come fantasma nel gesto del teatro come rito che unisce alto e basso, città e acqua, Messi e Borges. E forse, anche Europa 1941 e Argentina 1978, ma solo come entità spettrali.
La necessità di “Ritratto di un artista da morto” non è quindi risolta in un senso o nell’altro. Da qui lo spaesamento di un’opera che non appare riuscita ma neanche deragliata. Poeticamente vive come acqua dolce e salata, quella dell’estuario rioplatense, accende di curiosità ma l’orrore per il suo abime resta limaccioso, indistinto. Non c’è un esito, e qui si torna e concludiamo, a un plaisir du text alla “Entretien infini” di Maurice Blanchot, all’ermeneutica drammaturgica che si perde per sempre dentro il suo testo senza però lutti.
“Anatomia di un suicido”, teatromachia contro il nichilismo contemporaneo
È impossibile affrontare in modo lineare “Anatomia di un suicidio”, ultima opera del collettivo lacasadiargilla che ha appena debuttato in prima nazionale al Teatro Grassi, dove sarà in scena fino al 19 marzo.
A partire dal testo di Alice Birch, astro nascente della drammaturgia anglosassone, lo spettatore (e il critico) sono chiamati a una danza marziale (tipo capoeira) col corpo dello spettacolo, che è multiprospettico e scandaglia fenomenologicamente la vita dei personaggi.
Il prisma più importante è quello politico, come dichiarato dalla coregista, Lisa Ferlazzo Natoli: qui si fa “teatro politico” (tema già affrontato nel pluripremiato “When the Rain Stops Falling” di Andrew Bovell), ovvero un teatro critico che riflette, anche duramente, sulla deriva nichilista della società, della famiglia e degli individui. Il termine nichilismo a dire il vero non affiora, ma per noi è il chiaro sottostante dello spettacolo, il filo con l’amo che lega la vicenda.
La battaglia con(tro) il nichilismo – arcinoto freudianamente come “pulsione di morte” – è quella che combattono i 12 interpreti di “Anatomia”, a partire dai moti, dalle scelte di Carol, Anna, Bonnie. Carol prova quietamente a resistere al soave richiamo del nulla, ma la sua è una caduta progressiva nel maelstrom ritardata solo dalla nascita di Anna.
Questa affronta la tentazione del vuoto in maniera molto più dura e selvaggia, dionisiaca, anche con la droga. Cerca però furiosamente una via di salvezza e si lascia in qualche modo convincere che il matrimonio e la maternità siano l’esito salvifico del conflitto. Bonnie invece decide radicalmente per un suicidio sui generis, decidendo di interrompere la linea generativa femminile.
Ecco che si intravvede meglio il cuore della battaglia politica contro il nichilismo che infesta le nostre vite. Una lotta affinché il femminile venga riconosciuto e ammesso come qualcosa di più che il mettere materialmente al mondo i figli, sganciato dal bios muliebre, se possibile. È importante capire che per gli autori il femminile, come ogni vera potenza collettiva cosmogonica, nella sua essenza è misterioso e sfuggente, e soprattutto non è pertinenza di alcun genere.
Cangiante è quindi la casa (archetipo femminile) in cui si svolge la vicenda, sulle cui pareti sembrano scorrere gli stati d’animo (la psiche) dei protagonisti: sui muri che diventano proiezioni liquide, che influiscono costitutivamente sulla messa in scena, con i suoni e le musiche, cover e brani rock distorti. Un lavoro di squadra ben orchestrato per un habitat di scena dinamico e potente.
Le vicende di CarolAnneBonnie scorrono in simultanea sul palco e si intersecano a volte in maniera fantasmatica accompagnando lo scorrere degli anni, una trovata interessante che racconta come la vita dell’individuo sia infestata e spesso lacerata dalle “presenze” (pensate a Georg Steiner) buone e soprattutto cattive, e dagli spiriti del passato. Sembra non succedere molto, ma l’evento è la dialettica stessa, la scena e la parola, un campo in cui gli autori sanno che qui si gioca molto se non tutto della riuscita del lavoro.
All’inizio serve tempo per entrare nei giochi linguistici della pièce, che ci invita a una danza guerresca. Tre porte in scena e tre scene in contemporanea, con echi e intersezioni che aprono a sviluppi molteplici, al lavorio dei possibili.
E se non è una questione di genere la lotta è quindi anche degli uomini, che nella pièce però non sembrano intendere a fondo la posta in gioco, ovvero la chiamata del femminile: la avvertono ma non hanno la forza di reggere.
Il marito di Carol lotta per tenerla in vita facendola generare ma non può capire, si ferma al bios e a un amore sarcastico e disperato. Il compagno di Anna sembra più attrezzato ma non riesce a proporre altro che una casa e una figlia, radici, ma questo non impedirà agli elettrodi di irrompere sul corpo dell’amata.
È Bonnie a recidere il figlio generativo, e la sua omosessualità appare un atto di ribellione politico perché non orientata a un legame, ma solo a viverlo nella sua impossibilità, nell’istante. Approdo fatale al nulla illudendosi di sfuggirgli?
Riportiamo il tutto alla società e vedremo che la complessità di “Anatomia di un suicidio” sfida l’appiattimento attuale delle relazioni e del linguaggio, questiona lo sterile bavardage in cui perdiamo ogni riferimento al senso e implicitamente mette al bando una “prassi” politica ormai incancrenita e alleata giocoforza del nihil. Benché non esplicitamente tirata in ballo, la società vetero-maschilista è l’impero del nulla contro cui si scaglia la ribellione creatrice del femminile, in cerca di un nuovo senso.
Ribellione generatrice e anche sabba scespiriano, culmina con l’unico atto possibile, ovvero la rinascita orfica dei 12 apocrifi apostoli in scena, che si coagulano senza più un dio umano e maschio, e al contempo orfani delle tre divinità femminili smembrate, come elementi primari di un sangue che non è ancora tale.
Sono tutti protagonisti ci dice il finale della pièce, che nonostante momenti in cui la sfida della complessità sembra conficcarsi nella mano degli autori come un amo uncinato, sprigiona una forza gentile che disorienta e percuote, anche grazie al lavoro degli attori che si cercano evitandosi mentre risuona Disorder dei Joy Division.
Il disordine è così il nostro status (destino) aurorale, da affrontare possibilmente senza che l’individuo perisca insieme alla società agonizzante.
Anatomia di un suicidio
di Alice Birch
Una nuova produzione Piccolo Teatro di Milano
Progetto di lacasadargilla
con la regia di Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni
In scena: Caterina Carpio, Marco Cavalcoli, Lorenzo Frediani, Tania Garribba, Fortunato Leccese, Anna Mallamaci, Alice Palazzi, Federica Rosellini, Camilla Semino Favro, Petra Valentini, Francesco Villano e con Anita Leon Franceschi.
Scene: Marco Rossi, costumi: Anna Missaglia, disegno luci: Luigi Biondi, paesaggi musicali: Alessandro Ferroni, sound design: Pasquale Citera; cura degli ambienti video: Maddalena Parise, drammaturgia del movimento: Marta Ciappina
Il Barone Rampante, il prototipo del sognatore universale tra leggerezza e esattezza
Cosa resta della lezione di Italo Calvino nel 2023, a cent’anni dalla nascita? È la domanda implicita che Riccardo Frati, emergente regista che firma “Il barone rampante”, nuova produzione Piccolo Teatro di Milano, in scena al Teatro Grassi fino al 5 febbraio, suscita col suo nuovo lavoro.
Partiamo però da quelle esplicite, affrontate nell’adattamento e nella regia di un suo romanzo straordinario, un ircocervo per la sua incollocabilità, nè solo per ragazzi tanto meno per adulti: per sognatori grandi e piccini, per farla breve.
Dice Frati che si è rifatto al saggio forse più noto dello scrittore ligure, quelle “Lezioni americane” a cui molti si sono ispirati. La leggerezza in primis, e l’esattezza in secondo luogo. Leggerezza per staccarsi da terra, esattezza per non volare via.
Il Barone è uno di quei libri che segnano per sempre, soprattutto se siamo (stati?) sognatori e a maggior ragione se lo si è letto in quell’età in cui è cosa buona e giusta confondere sogni e realtà. Forte di queste premesse, Frati si colloca a pieno titolo nella categoria, restandone folgorato in età più che verde (come lo scrivente per altro, e se avete dato un’occhiata a questo sito capirete che non è uno scherzo).
Il teatro, ci dice e dimostra Frati, è il luogo dei possibili. Quello in cui i sogni emergono e vengono soppesati con il bilancino instabile della messa in scena, tra l’eruzione della fantasia e la colata, fredda, dell’intelletto. Cosimo Piovasco di Rondò è quindi perfetto per diventare un’imbattibile matrice del sognatore di ogni tempo.
Un ragazzo che rinuncia ai privilegi della vita nobiliare terrena, per vivere appollaiato sugli alberi diventando una sorta di agrimensore democratico delle proprie terre e di quelle di tutta Ombrosa, luogo metaforico di un passato in cui la natura era sì in pericolo ma ancora vivente e dotata di anima. Un governatore sensibile e illuminato, senza portafoglio.
La scena pensata da Frati e realizzata dalla scenografa Guia Buzzi, così come i costumi e le luci (rispettivamente di Gianluca Sbicca e di Luigi Biondo) punta sul fiabesco, ancorando la storia al Settecento ma con ariosità, per sgusciare e reinterpretare a piacimento toni e sfumature dell’epoca dei Lumi, che diventa “epoca di Mozart“.
La musica, o meglio la composizione musicale e il sound design, come si dice, curati da Davide Fasulo concorrono a questa reinvenzione dei Lumi, visti quindi come secolo in cui immaginazione, scienza e poesia avevano ancora un qualche contatto, in uno spirito pre-olistico e post-cartesiano.
Tecnologia e ispirazione felice in alcune scene-madre, come la battaglia coi pirati, il funerale del padre, il bacio tra Cosimo e la Sinforosa: il tutto grazie alla scenografia minimalista ma tecnologica, con gli alberi-nuvole in dinamismo perpetuo, accesi dal grande schermo cangiante che rende lo sfondo una parte attiva e importante dello spettacolo.
Non interessa troppo che si provi a dire che oggi Cosimo è un eroe ecologista ante litteram, cosa per altro non fuori luogo. Il protagonista che scappa sugli alberi per capire meglio gli uomini, è un sognatore applicato: ha a cuore la sua proprietà, la sua foresta, la sua dimensione come ogni cittadino nobile, privilegiato, ma poco interessato ai titoli quanto agli alberi, agli animali, alle persone, all’amore. È un “filosofo terriero”, un genius loci incarnato, di quelli che studiano il creato e dedito a giustificare il privilegio feudale dedicando tutta la vita alla cura del luogo.
Un eroe dei Lumi ma romantico? Probabilmente. E nel cast che aiuta con recitazione ironica a non prendere alla lettera, ovvero con pesantezza, la vicenda, forse avrebbe giovato un Cosimo meno scolastico e più autorevole nella recitazione, ma queste sono scelte insondabili di un regista – e osservazioni più leggibili di un critico.
A conti fatti, “Il barone rampante” è un macchinario teatrale tanto complicato quanto riuscito. Frati dimostra un notevole savoir faire nel combinare insieme un certo gusto contemporaneo (montaggio e ambientazione a tono) a un Settecento poeticamente poliedrico, post-moderno ma ancora incantato.
Ed ecco che torniamo alla domanda iniziale. Cosa resta della letteratura e del pensiero di Calvino? Ovviamente non c’è una risposta univoca. Restiamo all’ossimoro dichiarato da Frati, “la profondità va nascosta”, e all’ircocervo: una categoria estetica vale solo se è poetica, non scientifica.
Calvino e il suo eroe (prediletto?), il dodicenne Cosimo, sono quindi attuali perché la ribellione del cuore e della giovinezza è accompagnata dalla buona volontà e dall’amore per il creato e le creature, categoria molto più ampia della sola società. È una ribellione à rebours in qualche modo francescana (ma senza riferimenti espliciti), anche verso l’Egolatria dei giorni nostri, quella che illude che ognuno possa essere meglio se va CONTRO gli altri per impalpabili, se non proprio sciocche, ragioni.
Per Cosimo-Calvino, invece, la vita è un serissimo gioco ma pur (e per) sempre gioco, per sognatori-costruttori. Da affrontare con cuore infante, mani da taglialegna e e testa adulta, con la consapevolezza incrollabile che gli “Altri”, il mondo, sono compagni di viaggio e non ostacoli da abbattere come elci diventati scomodi.
Diventare dei Cosimo per una sera è vivere una magia, la stessa magia che avevamo provato vedendo il sublime “Romanzo d’infanzia” di Abbondanza|Bertoni, per esempio, opera cosmogonia sull’infanzia di qualche anno fa. Allora come oggi, serve quella magia dell’infanzia e della giovinezza in cui sognare non ha un prezzo, al limite si versano lacrime per la disillusione. E sognare e piangere sono linfa eterna della vita e anche della crescita dell’uomo.
Amore e informazioni, ovvero il cuore mangiato dalla testa
Caryl Churchill, decana dell’avanguardia teatrale britannica, con un suo lavoro del 2012, “Love and information”, ha ispirato niente meno la nascita di un corrispettivo progetto teatrale italiano, sostenuto dal Teatro dell’Elfo e dal nome italianizzato in Collettivo Amore e informazioni.
Amore e informazioni, diretto da Marina Bianchi e in scena all’Elfo fino al 29 gennaio, vede in scena due apprezzate veterane del teatro milanese, Corinna Agustoni-Elena Callegari, supportate dalla vena surreale di Mauro Barbiero e dalle performance-coreografie della seducente Chiara Ameglio di Fattoria Vittadini.
Un’opera colta, stratificata e politica, che con la chiave stilistica del pop grottesco vuole raccontare lo scollamento tra la materia calda e pulsante della vita (il corpo, l’amore) e la sua venatura fredda e analitica (le informazioni, il linguaggio), vena artificiale che l’uomo ha saputo costruire nei millenni dell’Antropocene. E che ora gli si è ritorta contro.
Senza una struttura drammaturgia diacronica, la pièce, allestita in uno spazio bianco illuminato da flash e sfondi di diversi colori, vive di 57 caleidoscopici sketch (alcuni rapidissimi) che servono a raccontare lo smarrimento-svilimento della società contemporanea, sballottata dalla sua fame bulimica di informazioni in un limbo in cui nomi, parole e cose hanno fatto tilt degradando l’umanità stessa in creature semi-animalesche.
Il quartetto di interpreti cambia identità e situazioni ininterrottamente, grazie a maschere di animali e demoni. Ne deriva uno straniamento che, a dire, il vero è causa e origine della drammaturgia, che non procede per analogia o per narrare, ma solo per dimostrare la tesi dell’autrice, che il mondo “blu” apicale si sta mangiando il suo cuore rosso.
Molte categorie degli sketch sono di conseguenza legati a disturbi della psiche, che non riesce più nel compito di sintetizzare l’equilibrio tra parte fredda e calda della persona. Momenti bizzarri, canzoni e trovate illuminano a tratti una messa in scena che mancando in toto di unità d’azione (nel senso che non ce n’è: è dinamica ma circolare), non riesce a sfuggire al dogma della ripetizione, predeterminata da un testo criptico e spiazzante per quanto colto ed elegante.
Se il sangue è solo sangue…
A proposito di #BonesAndAll, film di Luca Guadagnino.
Non starò a menare troppo il torrone ma mi è sembrato un film astuto, sicuramente ben fatto per alcuni versi, ma definitivamente per adolescenti affamati di piatti confezionati dai loro stessi padri.
Non c’è nessuna vera problematizzazione del cannibalismo, che, benché il regista la derubrichi a pretesto (Il cannibalismo è un pretesto per rendere la storia più potente e per allontanarli ancora di più dalla società che li emargina – Luca Guadagnino), si staglia come il vero protagonista del film.
I due protagonisti a conti fatti non lo sono davvero: vengono impantanati nel selvaggio granguignolismo in cui li immerge loro malgrado il regista, che sarebbe giustificabile solo nella piena dimensione dell’horror.
Invece Guadagnino artatamente brucia il genere per assurgere a una dimensione più alta, il romanzo di formazione, che però non viene esplorata seriamente, rimanendo un codice estetico, atrofizzato in dialoghi e caratterizzazioni sommarie.
E così è il sangue a dominare sovrano in un prodotto splatter-colto, che non dice – o prova a dire – nulla allo spettatore senziente del “vero” rapporto tra individuo e società. Tra mostruosità e normalità. Tra libertà e conformismo.
Guadagnino è astuto nel portare avanti degli pseudo-ribelli che scimmiottano Sid Vicious (Lee-Timoteo) o la Sigourney Weaver di Alien (Marren), ma la sua pur seducente maniera non ha il tocco di un Terrence Mallick (La Rabbia Giovane, ad esempio) né la rabbia polimorfa e iridescente di Harmony Korine, tanto per far due nomi.
E poco o niente spiega del mondo in cui vivono (ma quale realismo??) e del mistero delle identità personali, perché è tutto solo un gigantesco pretesto per creare delle vittime con cui identificarci. In breve un pretesto per non pensare a nulla, ma solo per restare immersi nell’ordine dell’estetico sentimentale.
E lasciamo il Kino International di Berlino (sempre bello venire qui) perplessi, con un’opera anche vedibile e senza pecche ma che tradisce, come un vino novello che dopo il primo sorso non va oltre le labbra. Ma “noi credevamo” di essere non solo bocca (anche budrie, cerebro, cuore, organi periferici…) o siamo solo questi?
L’umanità infantile e cechoviana di Lucia Calamaro
Come eterni bambini intrappolati nella loro incapacità di crescere, i quattro protagonisti di “Darwin inconsolabile” assistono alla scomparsa del “giardino” planetario
C’è un modo per parlare di cose serie senza annoiare e annoiarsi? Lungo questo scomodo paradosso si muove l’ultima, a tratti folgorante, pièce di Lucia Calamaro, “Darwin inconsolabile (un pezzo per anime in pena)“, in scena al Piccolo Teatro Grassi di Milano fino al 6 novembre e poi in tournée.
Tutto il testo pulsa intorno a questa che è diventata una delle contraddizioni più scivolose dell’attivismo contemporaneo: conciliare la vita, con le sue tragicomiche e divertenti bassezze, alle seriose e anche drammatiche battaglie della nostra epoca, prima fra tutto quella per salvare il pianeta minacciato dalla catastrofe.
“Che palle”, dice infatti Riccardo dopo il pippotto di una delle due sorelle sulla mancanza di coraggio e voglia delle persone di mettere al centro della loro vita la necessità di lottare per il pianeta. Nessuno lotta più seriamente per obiettivi comuni, per ideali ma questa mancanza di “impegno”, come si sarebbe detto una volta, non significa la scomparsa del bisogno, interiore, di spendere la propria vita per qualcosa che non sia sempre e solo avere chiappe palpabili, jeans strappati da giovane e accessori che ci diano l’illusione di essere unici.
E quindi? Confusione e malinconoia. Purtroppo il vero collante che sembra legare le generazioni nella pièce: la madre, l’artista 81enne Maria Grazia ai tre figli, Riccardo, Gioia e Simona (in scena coi loro nomi e tutti bravissimi). Maria Grazia simula una finta malattia mortale per avere finalmente intorno a sé al capezzale i figli “egoisti”, troppo incentrati sulle loro vite e incapaci di restituirle affetto e attenzioni.
L’altro tema che emerge dalla pièce – che è “politica” forse nell’unico senso davvero praticabile oggi per un’opera culturale: ovvero a partire dall’inattualità dell’azione militante in quanto tale e dell’idealismo – è l‘immaturità collettiva di tutta la famiglia. Tutti sembrano solo giocare con i contenuti “alti”, nonostante Simona, ad esempio, sia lacerata dal suo non far niente. I 4 protagonisti della pièce sono dei piccoli eroi della nostra spiaggiata quotidianità nel senso che agiscono solo come automi nevrotici che il consumismo ha reso bambini per sempre.
L’immaturità collettiva è il senso sotterraneo della pièce, con Calamaro bravissima a scrivere dialoghi e battute carichi di intelligenza e ironia. Eccolo il coté malinconicamente cechoviano della pièce, una specie di nuovo “Giardino dei ciliegi”, dove il giardino dei ciliegi è quello comune, planetario, in atto di essere perduto per sempre.
Questo ci dicono, ridendo (e piangendo) amaramente i quattro muppet nel loro show familiare: non c’è possibilità di adultità perché il reticolo delle dipendenze relazionali è talmente collosamente stratificato che non c’è una via d’uscita. Abbiamo accettato tutti la “dolcezza” carnevalesca dello scambio infinito della merce, oggi digitale, e ora siamo fregati. Per sempre? Non lo si può dire anche se una qualche forma d’ottimismo non è facile da trovare, neppure per Calamaro, che, con un finale esageratamente strascicato mostra gli effetti dell’indecisione cosmica (angosciosa tenaglia psichica comune), barcollando tra illusioni e laconiche bandiere bianche.
Il primo passo, dice l’81enne Maria Grazia nel monologo finale, l’unica che ha preso sul serio il gioco della creazione, è saper ancora inventare qualcosa (accusata di essere menzognera da Simona per averle mentito su un manoscritto inedito di Darwin, che in realtà lei stessa aveva creato per proteggerla dalla disillusione da bambina): occorre salvare il bambino in noi e i bambini veri, di carne e ossa.
Ma occorre anche saper decidere e sacrificare qualcosa di questo illusorio bengodi mercificato contemporaneo che pulsa di bit. Mentre i super ricchi godono all’infinito allargando il loro potere, noi crediamo di godere dei piccoli scambi quotidiani ma in realtà veniamo ingannati dalla nostra incapacità fanciullesca di decidere. E intanto, “là fuori”, il pianeta brucia.
Bisogna imparare a dire di no, come lo scrivano di Melville (citazione della pièce). Bisogna capire una buona volta che consumare è di per se un atto potenzialmente bulimico, malato. E che andrebbe attentamente analizzato e normato. Il liberismo sfrenato ha prodotto adulti mal o non cresciuti, e nuovi Darwin cechoviani sconsolati, senza più specie da scoprire e increduli sul mondo che scompare via via sotto la lente.