Il Barone Rampante, il prototipo del sognatore universale tra leggerezza e esattezza

Cosa resta della lezione di Italo Calvino nel 2023, a cent’anni dalla nascita? È la domanda implicita che Riccardo Frati, emergente regista che firma “Il barone rampante”, nuova produzione Piccolo Teatro di Milano, in scena al Teatro Grassi fino al 5 febbraio, suscita col suo nuovo lavoro.

Partiamo però da quelle esplicite, affrontate nell’adattamento e nella regia di un suo romanzo straordinario, un ircocervo per la sua incollocabilità, nè solo per ragazzi tanto meno per adulti: per sognatori grandi e piccini, per farla breve.

Dice Frati che si è rifatto al saggio forse più noto dello scrittore ligure, quelle “Lezioni americane” a cui molti si sono ispirati. La leggerezza in primis, e l’esattezza in secondo luogo. Leggerezza per staccarsi da terra, esattezza per non volare via.

Il Barone è uno di quei libri che segnano per sempre, soprattutto se siamo (stati?) sognatori e a maggior ragione se lo si è letto in quell’età in cui è cosa buona e giusta confondere sogni e realtà. Forte di queste premesse, Frati si colloca a pieno titolo nella categoria, restandone folgorato in età più che verde (come lo scrivente per altro, e se avete dato un’occhiata a questo sito capirete che non è uno scherzo).

Il teatro, ci dice e dimostra Frati, è il luogo dei possibili. Quello in cui i sogni emergono e vengono soppesati con il bilancino instabile della messa in scena, tra l’eruzione della fantasia e la colata, fredda, dell’intelletto. Cosimo Piovasco di Rondò è quindi perfetto per diventare un’imbattibile matrice del sognatore di ogni tempo.

Un ragazzo che rinuncia ai privilegi della vita nobiliare terrena, per vivere appollaiato sugli alberi diventando una sorta di agrimensore democratico delle proprie terre e di quelle di tutta Ombrosa, luogo metaforico di un passato in cui la natura era sì in pericolo ma ancora vivente e dotata di anima. Un governatore sensibile e illuminato, senza portafoglio.

La scena pensata da Frati e realizzata dalla scenografa Guia Buzzi, così come i costumi e le luci (rispettivamente di Gianluca Sbicca e di Luigi Biondo) punta sul fiabesco, ancorando la storia al Settecento ma con ariosità, per sgusciare e reinterpretare a piacimento toni e sfumature dell’epoca dei Lumi, che diventa “epoca di Mozart“.

La musica, o meglio la composizione musicale e il sound design, come si dice, curati da Davide Fasulo concorrono a questa reinvenzione dei Lumi, visti quindi come secolo in cui immaginazione, scienza e poesia avevano ancora un qualche contatto, in uno spirito pre-olistico e post-cartesiano.

Il Barone Rampante foto © Masiar Pasquali

Tecnologia e ispirazione felice in alcune scene-madre, come la battaglia coi pirati, il funerale del padre, il bacio tra Cosimo e la Sinforosa: il tutto grazie alla scenografia minimalista ma tecnologica, con gli alberi-nuvole in dinamismo perpetuo, accesi dal grande schermo cangiante che rende lo sfondo una parte attiva e importante dello spettacolo.

Non interessa troppo che si provi a dire che oggi Cosimo è un eroe ecologista ante litteram, cosa per altro non fuori luogo. Il protagonista che scappa sugli alberi per capire meglio gli uomini, è un sognatore applicato: ha a cuore la sua proprietà, la sua foresta, la sua dimensione come ogni cittadino nobile, privilegiato, ma poco interessato ai titoli quanto agli alberi, agli animali, alle persone, all’amore. È un “filosofo terriero”, un genius loci incarnato, di quelli che studiano il creato e dedito a giustificare il privilegio feudale dedicando tutta la vita alla cura del luogo.

Un eroe dei Lumi ma romantico? Probabilmente. E nel cast che aiuta con recitazione ironica a non prendere alla lettera, ovvero con pesantezza, la vicenda, forse avrebbe giovato un Cosimo meno scolastico e più autorevole nella recitazione, ma queste sono scelte insondabili di un regista – e osservazioni più leggibili di un critico.

A conti fatti, “Il barone rampante” è un macchinario teatrale tanto complicato quanto riuscito. Frati dimostra un notevole savoir faire nel combinare insieme un certo gusto contemporaneo (montaggio e ambientazione a tono) a un Settecento poeticamente poliedrico, post-moderno ma ancora incantato.

Ed ecco che torniamo alla domanda iniziale. Cosa resta della letteratura e del pensiero di Calvino? Ovviamente non c’è una risposta univoca. Restiamo all’ossimoro dichiarato da Frati, “la profondità va nascosta”, e all’ircocervo: una categoria estetica vale solo se è poetica, non scientifica.

Calvino e il suo eroe (prediletto?), il dodicenne Cosimo, sono quindi attuali perché la ribellione del cuore e della giovinezza è accompagnata dalla buona volontà e dall’amore per il creato e le creature, categoria molto più ampia della sola società. È una ribellione à rebours in qualche modo francescana (ma senza riferimenti espliciti), anche verso l’Egolatria dei giorni nostri, quella che illude che ognuno possa essere meglio se va CONTRO gli altri per impalpabili, se non proprio sciocche, ragioni.

Per Cosimo-Calvino, invece, la vita è un serissimo gioco ma pur (e per) sempre gioco, per sognatori-costruttori. Da affrontare con cuore infante, mani da taglialegna e e testa adulta, con la consapevolezza incrollabile che gli “Altri”, il mondo, sono compagni di viaggio e non ostacoli da abbattere come elci diventati scomodi.

Diventare dei Cosimo per una sera è vivere una magia, la stessa magia che avevamo provato vedendo il sublime “Romanzo d’infanzia” di Abbondanza|Bertoni, per esempio, opera cosmogonia sull’infanzia di qualche anno fa. Allora come oggi, serve quella magia dell’infanzia e della giovinezza in cui sognare non ha un prezzo, al limite si versano lacrime per la disillusione. E sognare e piangere sono linfa eterna della vita e anche della crescita dell’uomo.