L’umanità infantile e cechoviana di Lucia Calamaro

Come eterni bambini intrappolati nella loro incapacità di crescere, i quattro protagonisti di “Darwin inconsolabile” assistono alla scomparsa del “giardino” planetario

C’è un modo per parlare di cose serie senza annoiare e annoiarsi? Lungo questo scomodo paradosso si muove l’ultima, a tratti folgorante, pièce di Lucia Calamaro, “Darwin inconsolabile (un pezzo per anime in pena)“, in scena al Piccolo Teatro Grassi di Milano fino al 6 novembre e poi in tournée.

Tutto il testo pulsa intorno a questa che è diventata una delle contraddizioni più scivolose dell’attivismo contemporaneo: conciliare la vita, con le sue tragicomiche e divertenti bassezze, alle seriose e anche drammatiche battaglie della nostra epoca, prima fra tutto quella per salvare il pianeta minacciato dalla catastrofe.

“Che palle”, dice infatti Riccardo dopo il pippotto di una delle due sorelle sulla mancanza di coraggio e voglia delle persone di mettere al centro della loro vita la necessità di lottare per il pianeta. Nessuno lotta più seriamente per obiettivi comuni, per ideali ma questa mancanza di “impegno”, come si sarebbe detto una volta, non significa la scomparsa del bisogno, interiore, di spendere la propria vita per qualcosa che non sia sempre e solo avere chiappe palpabili, jeans strappati da giovane e accessori che ci diano l’illusione di essere unici.

E quindi? Confusione e malinconoia. Purtroppo il vero collante che sembra legare le generazioni nella pièce: la madre, l’artista 81enne Maria Grazia ai tre figli, Riccardo, Gioia e Simona (in scena coi loro nomi e tutti bravissimi). Maria Grazia simula una finta malattia mortale per avere finalmente intorno a sé al capezzale i figli “egoisti”, troppo incentrati sulle loro vite e incapaci di restituirle affetto e attenzioni.

L’altro tema che emerge dalla pièce – che è “politica” forse nell’unico senso davvero praticabile oggi per un’opera culturale: ovvero a partire dall’inattualità dell’azione militante in quanto tale e dell’idealismo – è l‘immaturità collettiva di tutta la famiglia. Tutti sembrano solo giocare con i contenuti “alti”, nonostante Simona, ad esempio, sia lacerata dal suo non far niente. I 4 protagonisti della pièce sono dei piccoli eroi della nostra spiaggiata quotidianità nel senso che agiscono solo come automi nevrotici che il consumismo ha reso bambini per sempre.

L’immaturità collettiva è il senso sotterraneo della pièce, con Calamaro bravissima a scrivere dialoghi e battute carichi di intelligenza e ironia. Eccolo il coté malinconicamente cechoviano della pièce, una specie di nuovo “Giardino dei ciliegi”, dove il giardino dei ciliegi è quello comune, planetario, in atto di essere perduto per sempre.

Questo ci dicono, ridendo (e piangendo) amaramente i quattro muppet nel loro show familiare: non c’è possibilità di adultità perché il reticolo delle dipendenze relazionali è talmente collosamente stratificato che non c’è una via d’uscita. Abbiamo accettato tutti la “dolcezza” carnevalesca dello scambio infinito della merce, oggi digitale, e ora siamo fregati. Per sempre? Non lo si può dire anche se una qualche forma d’ottimismo non è facile da trovare, neppure per Calamaro, che, con un finale esageratamente strascicato mostra gli effetti dell’indecisione cosmica (angosciosa tenaglia psichica comune), barcollando tra illusioni e laconiche bandiere bianche.

Il primo passo, dice l’81enne Maria Grazia nel monologo finale, l’unica che ha preso sul serio il gioco della creazione, è saper ancora inventare qualcosa (accusata di essere menzognera da Simona per averle mentito su un manoscritto inedito di Darwin, che in realtà lei stessa aveva creato per proteggerla dalla disillusione da bambina): occorre salvare il bambino in noi e i bambini veri, di carne e ossa.

Ma occorre anche saper decidere e sacrificare qualcosa di questo illusorio bengodi mercificato contemporaneo che pulsa di bit. Mentre i super ricchi godono all’infinito allargando il loro potere, noi crediamo di godere dei piccoli scambi quotidiani ma in realtà veniamo ingannati dalla nostra incapacità fanciullesca di decidere. E intanto, “là fuori”, il pianeta brucia.

Bisogna imparare a dire di no, come lo scrivano di Melville (citazione della pièce). Bisogna capire una buona volta che consumare è di per se un atto potenzialmente bulimico, malato. E che andrebbe attentamente analizzato e normato. Il liberismo sfrenato ha prodotto adulti mal o non cresciuti, e nuovi Darwin cechoviani sconsolati, senza più specie da scoprire e increduli sul mondo che scompare via via sotto la lente.