Contro i visi (e cuori) pallidi, il teatro politico di Christiane Jatahy

Dopo il silenzio” (Depois do silêncio) è l’ultimo lavoro della “Trilogia degli Orrori” di Christiane Jatahy, drammaturga e regista brasiliana associata al Piccolo Teatro e apprezzata in Italia anche in virtù del Leone d’Oro alla carriera all’ultima Biennale veneziana. L’abbiamo visto in scena al Piccolo Teatro Studio Melato, palcoscenico ampio e profondo, adeguato ai topoi teatrali dell’autrice. Sì perché il lavoro di Jatahy consiste nel trapiantare – grazie a una tecnica che prevede un impasto originale di mixed media: video, musica e recitazione – sulla scena l’altrove della lacerata contemporaneità brasiliana. Un’operazione iperrealista per condensare e amplificare in una storia una situazione di grande sofferenza umana e civile.

Un altrove diverso da quello che comunemente si sa del Brasile, che deve far capire allo spettatore occidentale che in quel sterminato paese il popolo è assediato. Già ma quale popolo e da chi o cosa? Non quello di Bolsonaro, presidente uscente, bersaglio esplicito della pièce. Non i bianchi e ricchi latifondisti locali che da sempre detengono le leve dell’economia e del potere. Ma gli indios e i neri, gli eredi degli schiavi (4 milioni ne arrivarono in Brasile dall’Africa, ricordano i narratori) che lo sono ancora de facto per la miseria e lo sfruttamento patiti.

In un palco spoglio, con solo un paio di scrivanie che alludono a cattedre per questa lezione teatrale di anticolonialismo, dietro ai quattro attori si staglia un grande schermo diviso in tre parti che occupa il fondale della scena. I 4 interpreti, 3 donne e un uomo (Gal Pereira, Juliana França, Caju Bezerra, Aduni Guedes), dopo il prologo drammatico commentano e raccontano le scene del docufilm proiettato alle loro spalle, con al centro membri delle comunità di Remanso e Iúna – Chapada Dimantina/Bahia/Brasile: uomini e donne che ricordano i “villani” di Nuto Revelli nel primo dopoguerra. La vicenda prende forma dal romanzo Torto Arado (Aratro ritorto) di Itamar Vieira Junior – che narra le battaglie di tre donne nello stato di Bahia –, e dal documentario di Eduardo Coutinho, Cabra marcado para morrer (Un uomo segnato dalla morte), dedicato all’omicidio del leader di un sindacato rurale.

Il video panoramico ha un effetto quasi immersivo, forse per aumentare nello spettatore l’urgenza di una scelta di campo. Solidarizzare con la storia insanguinata e reale qui narrata o respingerla, tertium non datur. È il salto della tigre a cui allude Walter Benjamin in una delle sue Tesi di filosofia della storia, in cui avverte come non esista una storia oggettiva ma solo quella, conflittuale, di oppressori e oppressi.
Spiando i volti dei presenti in sala si ha l’impressione che buona parte del pubblico sia alle prese proprio con un conflitto interiore, e qui torniamo alla questione del popolo. I poveri contadini sfruttati di Diamantina (e i milioni di loro compaesani nel resto del Brasile, ma potremmo scrivere dell’America Latina in blocco e non cambierebbe molto) nulla hanno a che fare con la distrattiva querelle intorno al “popolo italiano”, popolo (ma esiste ancora? È mai esistito?) che, al fondo, nel complesso non può certo dire di vivere una situazione paragonabile a quella vissuta dalla gente di Diamantina.

La battaglia di Jatahy è quindi doppia: dare voce, resistenza e memoria alla storia passata e presente delle comunità indigene (Yanomami e altre) e nere brutalizzate dal potere, e risvegliare nello spettatore la scintilla della consapevolezza: “Ehi turista, ecco il deep country, il paese profondo, che soffre mentre tu ti fai i selfie sulle spiagge!”. Tutti noi, bianchi urbani e acculturati di ogni paese, ci scopriamo sgradevolmente dalla parte degli eredi e continuatori del colonialismo. È lo scotto da pagare allo spettacolo, che tratta da complice chiunque accetti il sistema e ne faccia parte, anche maldestramente, rispetto a ai reietti di Bahia, gente da espellere anche fisicamente dalla società.

La nostra colpa è di sorvolare sul silenzio degli oppressori non parlando di quella che, in altri contesti, è stata chiamata una “politica genocidaria” verso il popolo brasiliano. Il silenzio sanguinoso degli indios è invece quello della loro lingua strappata dalla violenza neocolonialista, che reprime da sempre ogni tratto identitario nativo. L’aspetto fisico, la cultura, la musica, le parole… tutto è brutalmente estirpato dai pronipoti dei conquistadores europei. Al tempo, i primi a instaurare il cristianesimo come religione unica soffocando il panteismo naturale dei nativi. E i cui eredi, oggi, impongono una pan-globalizzazione – estetica, religiosa, economica, sociale: in breve, politica – ai danni dei loro pronipoti.

Questo silenzio drammatico, di stasi, è rotto dalla rabbia, cantata e urlata dai 4 interpreti, per interrompere la dolente rassegnazione dei contadini, chiamati a destarsi e a ritrovarsi uniti nella memoria degli uccisi in nome della lotta per non farsi scacciare dalle terre e per mantenere la cultura degli antenati. Lo spettatore non vorrebbe essere nei panni dei vinti ma non può non avvertire che la “loro” umanità derelitta sprigiona una grazia che noi occidentali forse abbiamo smarrito per sempre. Jatahy sembra esplorare in scena la poetica di Terrence Malick, abile nel saper colorare il mondo con lo sguardo dei ragazzi e degli indios in due suoi film recenti (The Tree of Life e The New World): creature innocenti prima (o nel mentre) di perdere l’innocenza.

Ed ecco l’epifania dello spettacolo: far sentire noi i veri sconfitti, rimpiccioliti dal nostro sguardo afflitto di gente che vive in un mondo sempre più ostile e invivibile senza uno straccio di forza e visione per cambiarlo. La comunità derelitta e forzatamente anti-tecnologica dei contadini appare paradossalmente più in salute e integra della nostra, imprigionata nel gorgo solipsista hi-tech. Cucina comunitaria, musicoterapia sciamanica (il Jaré), amore per la natura e la vita e cura reciproca, trionfano contro moltitudini-solitudini governate da device gerarchizzanti e da riti edonistici fini a se stessi.

Questo (e molto altro) è Depois do silêncio, opera che prova a spiegare che c’è comunità solo se a fondarla è una lotta condivisa. La politica torna al centro perché agli indios e ai neri interessa vivere liberi e sovrani, contro uno stato che li minaccia e uccide (come i due attivisti da cui parte lo spettacolo, assassinati dai sicari padronali).

La miscela docufinzionale di Jatahy viene fatta detonare in scena dai quattro narratori, che mischiando alla storia le loro vicende personali, vere o inventate poco importa, scardinano le nostre difese. Il viso pallido (nomignolo ottocentesco degli indiani nordamericani per i bianchi) non può non avvertire di essere lui quello privo di una comunità funzionale, di non avere un progetto difendibile, una cultura forte e una lingua vivente. Il viso e cuore pallido ha accettato che la modernità cancellasse ogni tratto identitario e autentico di sé e dei popoli sottomessi. Depois do silêncio ci scuote ricordandoci che la lotta non è finita e non finirà mai, “anche a costo di dover uccidere”. Finché la terra non sarà restituita e giustizia fatta. La nuova utopia è dolore, carne, lotta, parole e musica. E uno strano sentore di disperata felicità. E anche lo spettatore-indio ha la sua possibilità di riscatto e rinascita, a patto che rompa il silenzio diventando membro solidale delle ultime comunità native del globo.

Depois do silêncio (Dopo il silenzio)

di Christiane Jatahy

dal romanzo Torto Arado di Itamar Vieira Junior, pubblicato da LeYa

ideazione, regia e testo: Christiane Jatahy

con Gal Pereira, Juliana França, Caju Bezerra, Aduni Guedes e, per il film, la partecipazione di Lian Gaia e dei residenti delle comunità di Remanso e Iúna – Chapada Dimantina/Bahia/Brasile.

Collaborazione artistica, scene e luci: Thomas Walgrave

foto e video: Pedro Faerstein

musica originale: Vitor Araujo e Aduni Guedes

sound design e mixing: Pedro Vituri

suono (film): Joao Zula

montaggio (film): Mari Becker e Paulo Camacho

costumi Preta Marques

collaborazione al testo Gal Pereira, Juliana França, Lian Gaia e Tatiana Salem Levy

interlocuzione Ana Maria Gonçalves

sistema video Julio Parente

preparazione fisica Dani Lima

assistente alla regia Caju Bezerra

direttore di scena e del suono Diogo Magalhaes

assistente alle luci Leandro Barreto

direttore video Alan de Souza

tour manager Claudia Marques

amministrazione Claudia Petagna

direttore di produzione e distribuzione Henrique Mariano

sono presenti riferimenti e immagini da Cabra marcado para morrer di Eduardo Coutinho, produzione Mapa Filmes

produzione Cia Vertice – Axis productions

coproduzione Schauspielhaus Zürich, CENTQUATRE-Paris, Odéon-Théâtre de l’Europe – Parigi, Wiener Festwochen, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, ArtsEmerson – Boston, Riksteatern – Svezia, Théâtre Dijon-Bourgogne CDN, Théâtre National Wallonie- Bruxelles, Théâtre Populaire Romand – Centre neuchâtelois des arts vivants La Chaux-de-fonds, DeSingel – Anversa, Künstlerhaus Mousonturm – Francoforte, Temporada Alta – Festival de tardor de Catalunya, Centro Dramático Nacional – Madrid

Christiane Jatahy è artista associata a CENTQUATRE-Paris, Odéon-Théâtre de l’Europe, Schauspielhaus Zürich, ArtsEmerson Boston e Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa

Cia Vertice è supportato dalla Direction régionale des affaires culturelles Île-de-France – Ministère de la Culture France

Tour realizzato con il sostegno di CENTQUATRE on the road