“Anatomia di un suicido”, teatromachia contro il nichilismo contemporaneo

È impossibile affrontare in modo lineare “Anatomia di un suicidio”, ultima opera del collettivo lacasadiargilla che ha appena debuttato in prima nazionale al Teatro Grassi, dove sarà in scena fino al 19 marzo.

A partire dal testo di Alice Birch, astro nascente della drammaturgia anglosassone, lo spettatore (e il critico) sono chiamati a una danza marziale (tipo capoeira) col corpo dello spettacolo, che è multiprospettico e scandaglia fenomenologicamente la vita dei personaggi.

Il prisma più importante è quello politico, come dichiarato dalla coregista, Lisa Ferlazzo Natoli: qui si fa “teatro politico” (tema già affrontato nel pluripremiato “When the Rain Stops Falling” di Andrew Bovell), ovvero un teatro critico che riflette, anche duramente, sulla deriva nichilista della società, della famiglia e degli individui. Il termine nichilismo a dire il vero non affiora, ma per noi è il chiaro sottostante dello spettacolo, il filo con l’amo che lega la vicenda.

La battaglia con(tro) il nichilismo – arcinoto freudianamente come “pulsione di morte” – è quella che combattono i 12 interpreti di “Anatomia”, a partire dai moti, dalle scelte di Carol, Anna, Bonnie. Carol prova quietamente a resistere al soave richiamo del nulla, ma la sua è una caduta progressiva nel maelstrom ritardata solo dalla nascita di Anna.

Questa affronta la tentazione del vuoto in maniera molto più dura e selvaggia, dionisiaca, anche con la droga. Cerca però furiosamente una via di salvezza e si lascia in qualche modo convincere che il matrimonio e la maternità siano l’esito salvifico del conflitto. Bonnie invece decide radicalmente per un suicidio sui generis, decidendo di interrompere la linea generativa femminile.

Ecco che si intravvede meglio il cuore della battaglia politica contro il nichilismo che infesta le nostre vite. Una lotta affinché il femminile venga riconosciuto e ammesso come qualcosa di più che il mettere materialmente al mondo i figli, sganciato dal bios muliebre, se possibile. È importante capire che per gli autori il femminile, come ogni vera potenza collettiva cosmogonica, nella sua essenza è misterioso e sfuggente, e soprattutto non è pertinenza di alcun genere.

Cangiante è quindi la casa (archetipo femminile) in cui si svolge la vicenda, sulle cui pareti sembrano scorrere gli stati d’animo (la psiche) dei protagonisti: sui muri che diventano proiezioni liquide, che influiscono costitutivamente sulla messa in scena, con i suoni e le musiche, cover e brani rock distorti. Un lavoro di squadra ben orchestrato per un habitat di scena dinamico e potente.

Le vicende di CarolAnneBonnie scorrono in simultanea sul palco e si intersecano a volte in maniera fantasmatica accompagnando lo scorrere degli anni, una trovata interessante che racconta come la vita dell’individuo sia infestata e spesso lacerata dalle “presenze” (pensate a Georg Steiner) buone e soprattutto cattive, e dagli spiriti del passato. Sembra non succedere molto, ma l’evento è la dialettica stessa, la scena e la parola, un campo in cui gli autori sanno che qui si gioca molto se non tutto della riuscita del lavoro.

All’inizio serve tempo per entrare nei giochi linguistici della pièce, che ci invita a una danza guerresca. Tre porte in scena e tre scene in contemporanea, con echi e intersezioni che aprono a sviluppi molteplici, al lavorio dei possibili.

E se non è una questione di genere la lotta è quindi anche degli uomini, che nella pièce però non sembrano intendere a fondo la posta in gioco, ovvero la chiamata del femminile: la avvertono ma non hanno la forza di reggere.

Il marito di Carol lotta per tenerla in vita facendola generare ma non può capire, si ferma al bios e a un amore sarcastico e disperato. Il compagno di Anna sembra più attrezzato ma non riesce a proporre altro che una casa e una figlia, radici, ma questo non impedirà agli elettrodi di irrompere sul corpo dell’amata.

È Bonnie a recidere il figlio generativo, e la sua omosessualità appare un atto di ribellione politico perché non orientata a un legame, ma solo a viverlo nella sua impossibilità, nell’istante. Approdo fatale al nulla illudendosi di sfuggirgli?

Riportiamo il tutto alla società e vedremo che la complessità di “Anatomia di un suicidio” sfida l’appiattimento attuale delle relazioni e del linguaggio, questiona lo sterile bavardage in cui perdiamo ogni riferimento al senso e implicitamente mette al bando una “prassi” politica ormai incancrenita e alleata giocoforza del nihil. Benché non esplicitamente tirata in ballo, la società vetero-maschilista è l’impero del nulla contro cui si scaglia la ribellione creatrice del femminile, in cerca di un nuovo senso.

Ribellione generatrice e anche sabba scespiriano, culmina con l’unico atto possibile, ovvero la rinascita orfica dei 12 apocrifi apostoli in scena, che si coagulano senza più un dio umano e maschio, e al contempo orfani delle  tre divinità femminili smembrate, come elementi primari di un sangue che non è ancora tale.

Sono tutti protagonisti ci dice il finale della pièce, che nonostante momenti in cui la sfida della complessità sembra conficcarsi nella mano degli autori come un amo uncinato, sprigiona una forza gentile che disorienta e percuote, anche grazie al lavoro degli attori che si cercano evitandosi mentre risuona Disorder dei Joy Division.

Il disordine è così il nostro status (destino) aurorale, da affrontare possibilmente senza che l’individuo perisca insieme alla società agonizzante.

Anatomia di un suicidio

di Alice Birch

Una nuova produzione Piccolo Teatro di Milano

Progetto di lacasadargilla

con la regia di Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni

In scena: Caterina Carpio, Marco Cavalcoli, Lorenzo Frediani, Tania Garribba, Fortunato Leccese, Anna Mallamaci, Alice Palazzi, Federica Rosellini, Camilla Semino Favro, Petra Valentini, Francesco Villano e con Anita Leon Franceschi.

Scene: Marco Rossi, costumi: Anna Missaglia, disegno luci: Luigi Biondi, paesaggi musicali: Alessandro Ferroni, sound design: Pasquale Citera; cura degli ambienti video: Maddalena Parise, drammaturgia del movimento: Marta Ciappina