Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni affidano all’emergente Rosalinda Conti il compito di creare il corpus drammaturgico di “Uccellini“, ultimo lavoro de lacasadargilla (in tournée nazionale e visto a Milano al Piccolo Teatro Studio), pluripremiato ensemble teatrale autore dei già lodati “Il ministero della solitudine” e “Anatomia di un suicidio“. Conti, che ha lavorato con una matrice cechoviana, come l’autore del Giardino dei ciliegi sceglie una casa di campagna per sviscerare i rovelli di una famiglia borghese, i cui ultimi due elementi ancora in vita sono i fratelli di mezza età Luka e Theo. Con loro – o meglio nella loro psiche – ci sono i fantasmi del fratellino morto in fasce e della sorella grande, suicida.
La casa che li ospita, isolata nel bosco, è decrepita ma ricca di oggetti carichi di storie ed è il simbolo manifesto dello stato della famiglia, coi due consanguinei che mal si sopportano al punto da non frequentarsi da anni. Fino al momento in cui Luka (Francesco Villano) decide di portare Anna (Petra Valentini), la fidanzata, nella casa per il di lei compleanno, con la sorpresa di trovarci Theo (Emiliano Masala), non entusiasta di vederli. Rintanato lì a vivere per scrivere un libro sugli uccelli del bosco, Theo è ombroso e solitario come il bosco che ospita la casa, mentre Luka è estroverso e socievole, a tratti anche frivolo. Inevitabile lo scontro, con Anna che farà da terzo incomodo fino al finale.
“Uccellini” è ambientato nella sala con cucina della casa, un set psicanalitico rinchiuso in una teca multimediale su cui vengono proiettati video della natura circostante e altri contenuti onirico-animaleschi. Introduce la pièce e la raccorda una voce narrante che invita agli spettatori a immergersi nel luogo, questa vecchia casa sperduta nel bosco, tra ombre, sogni, incubi e fantasmi.
La reunion casuale (?) tra fratelli è l’occasione per fare i conti col passato, infarcito della presenza fantasmatica dei cari estinti, che prendono il sopravvento aleggiando dentro e fuori la mente dei protagonisti. La pièce si muove tra il dramma d’interni e il racconto di paura, non scegliendo di preciso nessuno dei due e abbandonandosi a una commistione dei generi ingarbugliata dall’elemento etologico, vale a dire il racconto degli uccelli del bosco, reso con piglio scientifico dalla voce narrante nell’arco della giornata e nottata in cui si sviluppa l’azione.
La pièce si muove su un registro disseminato da contrasti stilistici e narrativi, scanditi dai paesaggi sonori e dagli spazi scenici di Ferroni e dagli ambienti visivi di Maddalena Parise. L’incontro-scontro tra fratelli avanza abbastanza convulsamente, in un racconto che vive dei loro scontri linguistico-esistenziali che, alla fine restano la fonte primigenia della drammaturgia. A cui si adegua una regia poco agile e che ingabbia la verve degli attori, quasi reclusi nel set-recinto che delimita la casa.
Attraversata da echi bergmaniani oltre a quelli del citato Cechov, per quanto raffinata e colta la pecca di “Uccellini” risiede nell’equilibrio incerto tra regia e testo, con trama e racconto infarciti di dialoghi ripetitiviche, alla prova del palco contribuiscono a un senso di déja vu e stasi paralizzante, nonostante il finale artificialmente risolutivo.
Uccellini
di Rosalinda Conti, un progetto di lacasadargilla
regia Lisa Ferlazzo Natoli, Alessandro Ferroni
con Emiliano Masala, Petra Valentini, Francesco Villano
paesaggi sonori e ideazione spazio scenico Alessandro Ferroni
ambienti visivi Maddalena Parise
scene Marco Rossi e Francesca Sgariboldi
disegno luci Omar Scala
costumi Anna Missaglia
disegno del suono Pasquale Citera
coordinamento artistico al progetto Alice Palazzi
collaborazione alle immagini in ombra Malombra
assistente alla regia Matteo Finamore produzione La Fabbrica dell’Attore/Teatro Vascello
in coproduzione con Romaeuropa Festival, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
in collaborazione con AMAT & Comune di Pesaro, lacasadargilla, PAV Fabulamundi Playwriting Europe, RAM – Residenze Artistiche Marchigiane
con il sostegno di ATCL / Spazio Rossellini
In quello che ormai è il “teatro di casa” (dei veri protegé di A. R. Shammah), il Franco Parenti, la compagnia dei Gordi torna ad affrontare il suo tema d’elezione, che è la morte, alla luce anche del primo spettacolo che li ha fatti conoscere a metà degli anni Dieci, “Sulla morte senza esagerare“, uno spettacolo in cui a essere protagoniste erano delle grandi maschere surrealiste di cartapesta, che aiutavano lo spettatore a uscire dal problema di identificarsi con i morituri.
Note a margine, loro ultima produzione, invece, è senza maschere – il primo spettacolo che ne è interamente privo – e si occupa della fine dalla prospettiva dell’ultimo viaggio, del saluto al caro estinto. E lo fa con una piccola ma gigantesca ambizione, quella di creare una “tragicommedia”. Ovvero un linguaggio in cui si ride ma sapendo di ridere su un fatto esiziale, su una situazione limite. Mischiare le risa al pianto richiede un atteggiamento particolare, perché ridere della morte si può e forse anche si deve, ma occorre farlo in modo misurato.
In realtà, il tentativo dei Gordi è di andare oltre l’antica cautela in maschera della vecchia pièce. Qui i personaggi sono reali, benché tutte o quasi macchiette, che nel venire a dare l’ultimo saluto a una giovane madre, Claudia, rivelano i loro tic. Quindi lo spettacolo, a ben vedere, si concentra più sulle nevrosi e storture comiche dei personaggi che sul defunto, almeno fino al momento in cui il fantasma entra in scena con una bambina.
Un amico ha composto una poesia infarcita di retorica e piange in maniera smodata mentre la sua compagna la legge sbagliando le parole. Bacia compulsivamente il corpo, che non vediamo, nella bara aperta per l’estremo saluto. A gestire il tutto il compagno, sempre al telefono impegnato in lunghe telefonate in cui ripete sempre la stessa cosa, e dal fratello, invece impietrito dal dolore. Un bizzarro impiegato delle pompe, che cerca di essere efficiente e disponibile ma con l’effetto di essere meccanico e inumano, manda avanti l’affaire facendo un sacco di pasticci. Candele elettriche si accendono e spengono, bottiglie vengono stappate, equivoci e piccoli incidenti, il grottesco dilaga e trova la sua apoteosi con l’ingresso in scena dei due amici motociclisti, che presentano un video demenziale con foto della defunta e finiscono per generare un gran casotto che piace e dispiace ai familiari.
A quel punto la pièce va in vacca, ovvero entra in un cortocircuito demenziale, come nel celebre film “Hollywood Party”: l’amica santona cosparge di incenso tutto e tutti, la macchinetta del caffè si rompe, e, momento super esilarante, uno dei due motociclisti vuole dire due parole in tedesco e finisce per sparare minchiate in italiano. Nell’apice di questa demenza sfrenata l’irruzione della figlia, una bambina di 9-10 anni e del fantasma di Claudia, hanno l’effetto di spazzare via l’ondata demenziale, almeno fino a un certo punto. La bambina che ha perso la madre e si stringe col padre schiacciata dal dolore, complica il registro del comico, lo “sporca” intenzionalmente, obbligando lo spettatore a tornare alla verità della morte, cioè al vuoto, alla separazione, all’addio. Il fantasma che per l’ultima volta si congeda anche lui dalla vita e dai suoi affetti, ne rinforza la visione laica e terrena, umana… e l’importanza di salutarsi, del congedo, ma anche la durezza di questi momenti e la forza che non c’è ma si deve trovare.
Dice Riccardo Pippa, regista della pièce, sul significato di Note a margine. “Andare oltre la finitudine delle cose. Non è solo l’assunzione della fine, ma il ricercare anche teatralmente il modo di affrontare e di agire rispetto alla condizione di partenza. Le note a margine sono tutti quei tentativi di smarginare, di superare ciò che essendo limitato, finisce”.
I Gordi sono evidentemente ossessionati dalle zone limite, come la morte, perché lì possono indagare col loro linguaggio dolcemente irriverente, la psiche collettiva e il corpo sociale del nostro tempo. La loro forza è anche la loro debolezza, e alla fine una grande coerenza: lavorando sugli interstizi, sui e tra i puntini di sospensione, non pensano nemmeno di suggerire risposte. Il loro teatro è tutto un abitare la domanda (di senso) senza osare, per consapevole pudore (?), mai una risposta. Può non essere abbastanza, allo spettatore il verdetto.
Per finire, il loro teatro è destrutturante in positivo, un esercizio di annichilimento delle sovrastrutture sociali e psichiche per cercare grotowskianamente, l’essenza dell’umano, che, appunto, per loro, non è mai data, ma resta un’istanza da indagare ogni volta col medium del teatro. Alla fine, i Gordi sono un’ex giovane compagnia che, approdando alla maturità, porta avanti un teatro filosofico. E noi gli auguriamo di andare avanti così.
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NOTE A MARGINE
I Gordi / Teatro Franco Parenti
regia Riccardo Pippa
con Claudia Caldarano, Cecilia Campani, Daniele Cavone Felicioni, Antonio Gargiulo, Zoe Guerrera, Giovanni Longhin, Andrea Panigatti, Sandro Pivotti, Maria Vittoria Scarlattei, Matteo Vitanza
scene Anna Cingi
disegno luci Alice Colla
costumi Ilaria Ariemme
cura del suono Luca De Marinis
elettricista tournée Alice Colla
assistente volontaria alla drammaturgia Federica Cottini
assistente volontaria ai costumi Melina Koschier
direttore dell’allestimento Marco Pirola
sarta Marta Merico
scene costruite presso il laboratorio del Teatro Franco Parenti
costumi realizzati dalla sartoria del Teatro Franco Parenti diretta da Simona Dondoni
produzione Teatro Franco Parenti / TPE – Teatro Piemonte Europa / LAC Lugano Arte e Cultura
con il sostegno di Next-laboratorio delle idee per la produzione e la distribuzione dello spettacolo dal vivo
Tra biografia e autobiografia Paolo Fresu chiude la trilogia su jazz e letteratura cimentandosi in uno splendido “concerto teatrale” alla riscoperta del grande trombettista americano. Al Teatro Carcano di Milano fino al 10 novembre
Al Teatro Carcano di Milano, giovedì 7 novembre c’è stata la prima di uno spettacolo originale e toccante, che ha coinvolto il pubblico come raramente abbiamo visto in questi anni di frequentazioni dell’antico stabile del centro cittadino. Merito del format, un concerto teatrale, ideato da Paolo Fresu, uno dei più grandi trombettisti italiani, e del Teatro Stabile di Bolzano che ha prodotto quest’ultimo, kind of Miles, ideale chiusura di una trilogia in cui l’autore-musicista si è confrontato con un altro mostro sacro del jazz, Chet Baker (Tempo di Chet) e poi con la letteratura onirica nei suoi rapporti con la Sardegna (Tango Macondo), terra natia di Fresu.
Kind of Miles si apre con Fresu che racconta dove si trovava, esattamente, quell’accecante giorno di autunno del 1991 in cui venne investito dalla notizia della morte del suo mito, Miles Davis, dai più considerato il più grande genio jazzistico del secondo Novecento. Protetto da una grande quinta multimediale insieme agli 8 musicisti che lo accompagnano – un grande schermo su cui scorrono i contributi visuali elaborati live sulla base degli impulsi registrati dai sensori da lui indossati (frutto della ricerca e dello sviluppo della Libera Università di Bolzano), che sono parte attiva dello spettacolo, insieme a foto e suoni della voce di Davis –, Fresu racconta gli inizi della carriera dell’autore di A Kind of Blue e, contemporaneamente, i suoi stessi inizi come trombettista, segnati dall’ossessione di poter riprodurre i suoni arcani di Miles.
Ovviamente un’impresa impossibile, ma questo non ha impedito che Fresu riuscisse nella sua ormai lunga carriera a trovare le “sue note”, e spesso reinterpretando gli standard di Davis, che resta il suo faro e fonte creativa principale. Con Armstrong, Baker, Gillespie, Bill Evans, solo per citare i maggiori, ma Davis resta un gradino sopra per il 63enne trombettista di Berchidda.
Kind of Miles di Paolo Fresu è un’opera musicale e teatrale che evoca l’universo creativo e visionario dell’immenso musicista scomparso nel 1991. L’intento è quello di ricostruire la vita e la musica di un artista che ha segnato il Novecento attraverso la voce narrante di un unico autore/attore e attraverso il suo universo sonoro e le sue relazioni artistiche e umane.
Il materiale musicale preparato verte principalmente su “cinque estetiche” legate al suono oltre che alla temporalità, viaggiando fra standard che hanno fatto la storia del jazz e scelte originali composte dalla formazione, Da So What a StellabyStarlight a My Funny Valentine, passando poi da Porgy and Bess di George Gershwin a Birth of the Cool, da Jack Johnson allo storico album della “svolta elettrica” Bitches Brew, e abbracciando anche il mondo pop armonico di Time after Time contrapponendolo alla pura improvvisazione della libertà jazzistica.
Fresu si sdoppia aprendosi con pudore e rispetto alla parola parlata, in cui rievocando alcuni capitoli della vita e della carriera di Miles, ricorda, quasi fosse un adepto fedele della lezione di Nuto Revelli, che non si può parlare seriamente di grandi figure e grandi pagine collettive senza rischiare e mischiare la propria biografia. Fresu comincia timidamente ma poi si scalda, aiutato dai pezzi suonati e dalla magia del suo vero linguaggio, le note della tromba in cui canta, proprio come Miles, Chet, Louis e Dizzy e tutti gli altri.
In conclusione, il concerto teatrale ci sembra uno degli esperimenti migliori visti sulla scena negli ultimi anni. Ogni cosa è studiata e pensata per liberare emozioni, in musica ma anche con le parole, che Fresu dimostra di saper gestire con sufficiente personalità e autenticità. Ottimi i musicisti, bellissimi gli standard reinterpretati e bravo Fresu a condurli come un sapiente capo banda nel suo regno. Uno spettacolo, vogliamo credere, che resterà nella memoria a lungo.
kind of Miles è al Teatro Carcano di Milano fino al 10 novembre.
di e con Paolo Fresu, tromba, flicorno e multi-effetti
e con Bebo Ferra, chitarra elettrica
Dino Rubino, pianoforte e Fender Rhodes Electric Piano
Forse l’immagine più radicale della nuova pièce di Romeo Castellucci, Bérénice, presentata in prima nazionale nell’ambito di FOG, il festival di Triennale Teatro – di cui è Grand Invité per il triennio 21-24 –, è quando Isabelle Huppert, che interpreta la regina palestinese ammalata d’amore, ricompare in scena prima con un calorifero (Tito) e poi tirando fuori uno strascico infinito da una lavatrice. Bérénice-Huppert, nelle sue indefesse lamentazioni, professa coraggio nel sentirsi lontana dal potere e nel provare a nettare sul palco i panni sporchi della relazione impossibile con Tito, calorifero che non scalda. Lo farà fino alla fine riducendosi un cencio e poi risorgendo sgargiante (ma solo per risprofondare definitivamente).
Poche altre attrici avrebbero saputo reggere in scena l’inattuale monumentalità della liberissima riscrittura di Castellucci, intenzionato a misurarsi con la tragedia antica attraverso il poema tragico di Racine, uno dei pochi esempi del genere in cui non stilla una goccia di sangue. Huppert – non avevamo dubbi – ci riesce, navigando attraverso tre scene sacrali e maestose in cui più che un’attrice sembra una sacerdotessa. Ma tutta la pièce è intrisa di questa aura di sacralità che la rende distante e misteriosa, come dice il regista: “Tutto è tenuto o trattenuto. I Greci (e San Paolo) avevano una parola per esprimere quest’idea : katechon (dal greco : ciò che trattiene). Si può in tal modo percepire l’abisso nascosto, ma così vicino, come un velo febbrile tra il fondo e la forma, il tuffarsi e la realtà. Da un lato, ci sono dunque la cortesia, il linguaggio aulico, e dall’altro, vicinissimo, nei recessi, l’abisso, la violenza, la morte, il sangue”.
Non assistiamo a una semplice pièce ma a un rito misterico messo in scena con simulacri di antichi culti, greci e latini con vista sul cristianesimo degli albori, in cui perdersi (ma la palla da basket che rimbalza battendo il tempo ci impedisce di tornare davvero indietro nel tempo). E noi che siamo appollaiati in galleria, immersi nella nebbiolina che pervade tutto il teatro, ci perdiamo davvero, nel senso che non riusciamo a cogliere fino in fondo i dettagli della scena e dell’interpretazione impeccabile di Madame Huppert. Neppure la sovratitolazione scampa allo “psichismo profondo” che Castellucci impone sia in fase di scrittura che di messa in scena, elegante (soprattutto l’esodo, con dei fiori giganti che parano le spalle alla divina abbigliata con un colorato e bellissimo abito regale) e anche terrificante?
Qui sta la questione: la pièce deve spaurare, creare sgomento, far precipitare nello psichismo lo spettatore, grazie anche a un sound epico-monumentale (di Scott Gibbons) virato al noise e al disturbante, a tratti opaco e impastato. Lo confessiamo, a noi del teatro appollaiato non è capitato. Non siamo caduti anima e corpo nei sublimi movimenti liturgici del coro, tutto al maschile e desnudo, con corpi asciugati fino all’essenza midollare. Abbiamo assistito, a tratti con piacere, a questo rito della passione amorosa tradita di una donna che si aggrappa alla sua dignità ferita a morte. Abbiamo visto come Castellucci sa muovere e usare ancora ad arte tutta la scena, che partecipa con oggetti aurorali, cani misterici, busti di statue, e drappi che calano e avvolgono edificando il linguaggio della pièce, che trasmette in fondo quel che promette: “D’altronde, c’è dell’oscuro nella limpidezza di Racine… Ho qualche dubbio sulla meravigliosa luce della sua lingua. C’è anche molta ombra. Ed è a questa ombra che darò tutta la sua importanza“.
L’ombra prende così possesso della scena nell’afasia finale di Bérénice, che la costringe a un esodo in cui, in puro stile del fondatore della mai troppo lodata Societas, è il linguaggio stesso a diventare essenza umbratile e transeunte. Per finire, il gioco del Katechon riflette bene il panorama drammaturgico attuale di Castellucci, uomo di teatro ma soprattuto cultore della” totalità delle arti”, che si sta addentrando sempre di più in un viaggio intellettuale profondo ma anche dalle nuance solipsistiche. Stiamo al suo gioco: basta o non basta una somma Huppert e qualche scena maestosa per trascinare lo spettatore in una centrifuga in cui Racine non è che un’imago numinosa e un pugno di parole belle ma evanescenti? Se il teatro dev’essere (anche) emozione, ovvero carne e sangue, e non esercizio di stile e manifesto, ovvero accademia umbratile, la risposta è no.
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Romeo Castellucci
Bérénice – Da Jean Racine
liberamente ispirato a Bérénice di Jean Racine
un monologo con Isabelle Huppert e con la partecipazione di Cheikh Kébé e Giovanni Manzo e la presenza di dodici persone locali.
concezione e regia: Romeo Castellucci / musica originale: Scott Gibbons/ costumi: Iris Van Herpen/assistenza alla regia: Silvano Voltolina / collaborazione alla drammaturgia: Bernard Pautrat/ cura dei movimenti corali: Silvano Voltolina/ direzione tecnica: Eugenio Resta / tecnici di palco: Andrei Benchea e Stefano Valandro / tecnico luci: Andrea Sanson / tecnico del suono: Claudio Tortorici / costumista: Chiara Venturini / ideazione trucco e acconciatura: Sylvie Cailleret Jocelyne Milazzo / sculture di scena e automazioni: Plastikart Studio Amoroso & Zimmermann / direttori di produzione: BenedettaBriglia, Marko Rankov / produzione e Tour: Giulia Colla / organizzazione: Bruno Jacob, Leslie Perrin, Caterina Soranzo/ contributo alla produzione: Gilda Biasini / equipe tecnica in sede: Lorenzo Camera, Carmen Castellucci, Francesca Di Serio, Gionni Gardini / cura dei movimenti corali: Silvano Voltolina / stagista costumista –Madeleine Tessier/ répétitrice movimenti –Serena Dibiase/ répétitrice memoria –Agathe Vidal/ amministrazione: Michela Medri, Elisa Bruno, Simona Barducci / consulenza economica –Massimiliano Coli / produttori esecutivi: Societas, Cesena; Printemps des Comédiens -Cité du Théâtre Domaine d’O, Montpellier/ co-produttori: Théâtre de La Ville Paris, France; Comédie de Genève, Suisse; Les Théâtres de la Ville de Luxembourg; deSingel International Arts Center, Belgium; Festival Temporada Alta, Spain; Teatro di Napoli –Teatro Nazionale, Thalia Theater Hamburg; Onassis Stegi; Triennale Milano, Italy; National Taichung Theater, Taiwan; LAC Lugano Arte e Cultura, Switzerland; La Comédie de Clermont-Ferrand –Scène Nationale, France; Théâtre national de Bretagne, France; Yanghua Theatre, Chine /con il sostegno di: Fondation d’entreprise Hermè.
Muta Imago opera una profonda e ispiratissima riscrittura del penultimo capolavoro di Anton Cechov, “Le tre sorelle”, dramma crepuscolare popolato dai fantasmi di carne della crème dello zarismo decadente, militari, nobili, passacarte. E da Maša, Olga e Irina, tre giovani donne orfane dei genitori (del padre da un anno) che cercano di trovare un senso, ovvero una direzione alla loro vita, e un appiglio materiale.
“Tre sorelle”, la riscrittura di Claudia Sorace e Riccardo Fazi vista alla Triennale di Milano nel contesto di FOG 2024, è frutto, a loro scrivere, di un procedimento alchemico drammaturgico “per sottrazione“, per giungere all’essenziale della pièce cechoviana. Una sorta di fusione fredda per arrivare al noyau della sua poetica. In scena ci sono solo le tre sorelle, quindi, che parlano per tutti gli altri personaggi, solo evocati. Il tempo, o meglio la temporalità della pièce, è plurima: c’è l’inseguimento affannoso a una linearità positivista, a una vita ancora da vivere con scelte e possibilità, e poi c’è il buco nero di un presente eternizzante, figlio del lutto.
I due tempi sono in conflitto, e innescano modi opposti di vedere le cose mentre nella lotta accade anche una terza temporalità, innescata dallo scontro: la fissità della perdita, della lacerazione, del presente imploso che risucchia la vita, e porta all’oscurità demonica si alterna fragorosamente col “tempo della vita”, l’anelito alla rinascita e al progresso che spinge a vedere nella moltitudine multicolor della capitale, Mosca, il culmine del tragitto esistenziale e dei possibili. Senza voler complicare, questa terza temporalità è quella più autentica delle tre sorelle, ed è irriducibile, inspiegabile, misteriosa e germinale: è il senso che sgorga come un magma che non può essere cristallizzato in una risposta ma risuona solo nella domanda, nel punto interrogativo (“perché siamo al mondo, perché soffriamo… ah saperlo, saperlo!”).
La realtà delle tre sorelle è dunque uno stridente campo di battaglia tra esperienze del tempo differenti, ben orchestrato dal sound design di Fazi, superbamente eseguito live da Lorenzo Tomio. Una battaglia tra temporalità diverse e modi di vedere antitetici. E qui sta, a nostro avviso, l’attualità eccezionale della poetica cechoviana, colta perfettamente dalla potenza della riscrittura di Muta Imago. Il nostro mondo è intriso di queste dinamiche conflittuali, dentro alla persona e fuori nella società. Anche noi siamo travolti da questa tempesta di temporalità (quella del buco nero, del lutto nella pièce, corrisponde alla vanitas, all’effimero della Medusa che seducendo paralizza), e non c’è alcun senso reperibile che non sia lì nel conflitto stesso.
Il mondo in rovina cechoviano era quello di una società, quella russa di fine Ottocento, che non si reggeva e non si affidava più alla visione imperiale. E qui si apre l’exitu. Ovviamente lo zar è un uomo così come lo sono i militari e i burocrati. Il potere zarista è maschile, ovvero univoco. Le tre sorelle si dibattono per provare a far parte ancora di quel mondo, ma il loro conflitto le porta a incarnare femminilmente un parto psicologico, un’aurora e una divergenza, una falla plurima che minaccia la visione zarista univoca.
Muta Imago allestisce una quinta scenografica che evoca un interno borghese fin de siècle, ma le tre sorelle sono sia di quell’epoca che di molte altre. In scena c’è un telefono a filo, una radio degli anni Ottanta, delle palle luminose portatili. Da qui i MI attingono a tutti i loro studi e al loro complesso linguaggio scenico – danza meccanica, suoni e musiche cosmogoniche o liriche, impianto luci totalizzante: il tutto potente come e più dei personaggi – per teatralizzare lo scontro tra vecchio e nuovo mondo, tra univocità e multivocità.
E trovano nella tiepida e malinconica resilienza finale (parolaccia, avete ragione) delle sorelle la chiave dell’exitu. Ma le loro grida, i risvegli dagli incubi, i sogni tormentati, le visioni, le illusioni, sono le stesse che riecheggiano nel nostro mondo devastato dalle guerre e dal tecnoconsumismo che non lascia spazio all’interiorità (la vera natura della privacy) e alla ricchezza interiore delle persone: questo è in sostanza il nuovo campo di battaglia del Millennio, con i brand che spolpano l’individuo, impossibilitato a esistere in quanto tale, soffocato dalla potenza univoca e annichilente della merce che uniformizza tutto e tutti.
In Tre sorelle l’esteriorità è zarista, univoca e bellicista – l’interiorità cechoviana riletta da IM e abitata un tempo dalle donne, è invece uno specchio distorto degli interni borghesi che disturba e inquieta la visione zarista: la (nuova) realtà è data dallo scontro tra questi orizzonti. Per questo l’exitu di tre sorelle non è squisitamente femminista. Le parole di Cechov sul tempo che ci cancellerà sono dell’uomo come specie e in particolare dell’homus europeus.
Tre sorelle di Muta Imago tirando le fila è solo il capitolo di un conflitto ancora da combattere per impedire che l’alienazione ci trasformi in nuovi fantasmi post-zaristi, simulacri di un potere che non è nelle nostre mani ma in quelle di poche persone che stanno alienando la vita vera ai vacui paradisi tecnoartificiali. E nelle grinfie dei nuovi zar che provano a reimporre un giogo imperiale ante litteram.
musiche originali eseguite dal vivo: Lorenzo Tomio
disegno scene: Paola Villani
direzione tecnica e disegno luci: Maria Elena Fusacchia
costumi: Fiamma Benvignati
amministrazione, organizzazione e produzione: Grazia Sgueglia, Silvia Parlani, Valentina Bertolino
comunicazione: Francesco Di Stefano
ufficio stampa: Marta Scandorza
una coproduzione di: Index Muta Imago, Teatro Di Roma – Teatro Nazionale, Tpe – Teatro Piemonte Europa In Collaborazione con Amat & Teatri Di Pesaro Per Pesaro 2024. Capitale Italiana Della Cultura / foto di scena: Luigi Angelucci, Gaia Adducchio
Dopo “Anatomia di un suicidio”, ultimo lavoro sul tema del femminile, lacasadargilla torna al Teatro Grassi con una pièce appena anteriore, del 2022, che ne anticipa i temi. “Il Ministero della Solitudine“, con la regia di Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni, e la drammaturgia di Michele Sinisi.
La scrittura è innescata da un fatto di cronaca del 2018, quando in Gran Bretagna venne istituito un vero Ministero della Solitudine per occuparsi di questa nuova piaga collettiva. La scena, smaterializzata, è costituita da una piramide cangiante a tre facce che restituisce gli interni dei cinque protagonisti, Alma, F., Primo, Simone, Teresa, che danno vita ad altrettanti monologhi che solo incidentalmente collidono tra loro. Accanto, un piccolo desk e un’altra postazione di lavoro. Sulla parete in fondo, tubi di neon algido si accendono e spengono ordinati come in un’installazione di Bruce Nauman, a sottolineare come il lavoro in fondo sia un ibrido tra teatro e performing art, un linguaggio sperimentale.
Il ministero inglese d’antan viene deterritorializzato e reso un archetipo del nostro nuovo mondo. Una specie di numinosa entità kafkiana a cui alcuni dei protagonisti della pièce si rivolgono per avere lavoro, consolazione, terapia o solo per cercare qualcuno che ascolti. Ma se scomodiamo il praghese è perché lui più di altri scrisse di alienazione e di misteriose ma vere presenze, anche statali, che si occupano di ingarbugliare la vita ancor di più. Dei ministeri, insomma, come scrisse George Steiner.
Ma il vero fulcro della drammaturgia, come scrive lacasadargilla nelle note, è lavorare sulle pastoie del desiderio, e sulla solitudine come suo sintomo manifesto. Siamo soli perché non sappiamo più i nostri desideri. Non avendo dei desideri “reali”, il corpo desiderante trascende lacanianamente in un set terapeutico analitico sui generis, perché non c’è nemmeno un evidente désir di guarigione nei personaggi. Ancora una volta Kafka, i cui personaggi sono tutti lacerati da desideri latenti e sommersi, che affiorano saltuariamente in maniera distruttiva.
I 5 in scena si muovono come automi di carne, alternando stati d’animo che vanno dalla cupa disperazione a uno stato di esaltazione maniacale. I monologhi si sovrappongono e restituiscono la cifra comunicativa dell’essere umano en solitude, incapace di ascoltare l’Altro. Eppure non c’è pesantezza a parte la dichiarata pesantezza dell’ensemble. Stacchetti danzanti nevrotici su canzoni rockeggianti di decadi diverse restituiscono un’azione sincopata e ripetitiva, ma gestita ad artem dalla drammaturgia di Sinisi, attenta a soppesare ogni termine – e dalle scelte di regia, che muovono in questo limbo distopico i cinque sventurati agiti dal numen contemporaneo. E poi il conflitto, che esplode in piccole colate laviche, lavate via dalle canzoni.
Raramente abbiamo visto una simbiosi scenica così ben concretata come quella realizzata da Giulia Mazzarino, Francesco Villano, Emiliano Masala, Tania Garriba e Caterina Carpio. Danzano esilmente tra loro senza danzare insieme e senza sapere di volerlo fare. Che poi è il leit motiv della pièce. Ecco, se il tema della solitudine in fondo non è nuovo, il modo di renderlo da questa pièce ci porta in un nouveau monde dove all’utopia è stabilmente subentrata la distopia.
Se l’utopia è il sogno (desiderio) di cambiare il mondo, la distopia è la sua negazione. Siamo soli perché non sappiamo più desiderare il mondo, perché è il mondo che desidera per noi. E il legame di Primo con Marta, una real doll “seducente”, ci dice proprio questo: non siamo più umani, la mutazione antropologica è in corso, siamo come i replicanti di Philip Dick. Lavori in pelle. Sogni cibernetici di un algoritmo che decide al posto nostro.
È un lavoro aspramente e splendidamente contradditorio questa pièce, perché se il pessimismo è manifesto (dietro ci sono i lavori antecedenti sulla catastrofe ambientale) con l’estinzione di massa come destinazione verosimile della distopia, la pièce trabocca di singulti, grida soffocate, enfasi sgangherate, distorsioni paranoidi, leggiadri abbrutimenti ma sempre con una gestualità accordata che ci fa pensare che l’arte e il teatro, per una sera, siano il solo farmaco per alleviare questa transumanza catastrofica. E non nel senso di un narcotico, ma di un morituro che scrive una bella, bellissima, lettera all’umanità prima di scomparire, chiedendo per l’ultima volta ascolto. E per tutto questo gli perdoniamo il finale, balbuziente.
Il Ministero della Solitudine
uno spettacolo di lacasadargilla
parole di e con
Caterina Carpio, Tania Garribba, Emiliano Masala, Giulia Mazzarino, Francesco Villano
drammaturgia del testo Fabrizio Sinisi
regia Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni
drammaturgia del movimento Marta Ciappina
cura dei contenuti Maddalena Parise
spazio scenico e paesaggi sonori Alessandro Ferroni
luci Luigi Biondi
costumi Anna Missaglia
aiuto regia Caterina Dazzi / Alice Palazzi
assistente al disegno luci Omar Scala
assistente volontaria alla regia Laura Marcucci
produzione Emilia Romagna Teatro ERT /
Teatro Nazionale, Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Teatro Metastasio di Prato.
Emanuele Aldrovandi, autore e regista de “L’estinzione della razza umana” visto al Franco Parenti, è abituato a misurarsi con la faccia sporca della nostra contemporaneità, vedi le non poche pièce precedenti dedicate a problemi come migranti, famiglie malate, solitudini, ecc. Qui si confronta con la pandemia, tema scivoloso politicamente e artisticamente e che socialmente ha relegato buona parte dell’umanità in uno stato di emergenza senza fine con lunghi periodi di reclusione nella propria abitazione. Mentre, a distanza di poco più di due anni dalla fine dell’ultimo confino, stiamo ancora provando a capire i danni che questo status emergenziale con l’interruzione di molte attività economiche ha comportato per noi – famiglie, imprenditori, lavoratori –, Aldrovandi ha bruciato sul tempo i colleghi e già durante il confino ha scritto una pièce dedicata all’assurdo quotidiano di quel periodo.
Rieccoci in quei giorni, quindi, in un tetro condominio-galera in cui le vite di due coppie si scontrano per le condizioni di reclusione imposte da uno strano virus che trasforma le persone in simil-tacchini. Eh sì, umanoidi con penne e becco, con difficoltà respiratorie che provocano anche la morte. Una scelta interessante di arpionare esteticamente il virus ma che, a ben vedere non verrà sviluppata a dovere nel resto della pièce. In questo clima di terrore, uno dei quattro, un pubblicitario, vuole andare a correre violando l’ultimo decreto che impone il confino domestico. L’uomo vuole respirare un po’ d’aria fresca e sgranchirsi le gambe, ormai “radici di un albero”.
Per sua sfortuna incontra nell’androne del palazzo, reso nella scenografia come una prigione, con pareti-inferriate come una gigantesca gabbia comunitaria, il marito di un’altra condomina, un geometra impaurito e ossessionato al contrario dal virus, e deciso a impedirgli di violare il decreto e a gustarsi quella mezzora di libertà. Tra continue consegne di acquisti online (anche questo retaggio della pandemia) da sterilizzare maniacalmente e goffi tentativi di spiegarsi a vicenda, l’irruzione delle rispettive compagne scatena il patatrac: una è un’attivista green e pro tempore cantante da balcone ma soprattutto disperata al punto di sognare l’estinzione dell’uomo; l’altra è un’ostetrica ultrareligiosa che ha appena avuto una bambina. Inevitabile lo scontro, che coinvolgerà anche i mariti fino al finale.
La pièce si sviluppa in una sola scena e in un unico tempo/azione. Tutto ruota intorno al fatto di violare o meno un decreto che riguarda l’ordine pubblico e questo pone allo spettatore una scelta. Identificarsi col pubblicitario libero pensatore, individualista e un po’ stronzo, oppure col geometra-pecora ingabbiato nei suoi schemi mentali e nelle sue fobie. E dall’altra parte, con la lotta disperata dell’attivista un po’ isterica o con la gioia fanatica (e quindi sospetta) dell’ostetrica zelota. Insomma, un’umanità smarrita e desolante.
Aldrovandi articola il doppio dilemma con i consueti dialoghi ben congegnati e situazioni assurdamente comiche. In questo clima surreale, ma che in fondo è proprio quello che abbiamo vissuto solo due-tre anni fa, riviviamo la violenza con cui il virus e la risposta dello Stato, hanno deviato per sempre il corso delle nostre vite, come una colata lavica. Irrimediabilmente? Forse perché ha intinto l’inchiostro durante la pandemia, l’autore, che firma pure una regia pulita ma senza colpi di scena, si incarta nei gorghi dialogici conflittuali, che occupano tutta la seconda parte dello spettacolo, con fiumane di paroloni e urla, alla fine stringhe e fasce dei guantoni per un incontro di boxe tra perdenti, portato troppo in là dai pur bravi attori. “L’estinzione della razza umana” si dimostra nel complesso una pièce acuta scritta da un autore bravo ma che qui non sembra aver guadagnato la necessaria distanza per operare una sintesi più appuntita del materiale, fondamentale per scelte di regia e esodi drammaturgici più puliti e incisivi.
“Dopo il silenzio” (Depois do silêncio) è l’ultimo lavoro della “Trilogia degli Orrori” di Christiane Jatahy, drammaturga e regista brasiliana associata al Piccolo Teatro e apprezzata in Italia anche in virtù del Leone d’Oro alla carriera all’ultima Biennale veneziana. L’abbiamo visto in scena al Piccolo Teatro Studio Melato, palcoscenico ampio e profondo, adeguato ai topoi teatrali dell’autrice. Sì perché il lavoro di Jatahy consiste nel trapiantare – grazie a una tecnica che prevede un impasto originale di mixed media: video, musica e recitazione – sulla scena l’altrove della lacerata contemporaneità brasiliana. Un’operazione iperrealista per condensare e amplificare in una storia una situazione di grande sofferenza umana e civile.
Un altrove diverso da quello che comunemente si sa del Brasile, che deve far capire allo spettatore occidentale che in quel sterminato paese il popolo è assediato. Già ma quale popolo e da chi o cosa? Non quello di Bolsonaro, presidente uscente, bersaglio esplicito della pièce. Non i bianchi e ricchi latifondisti locali che da sempre detengono le leve dell’economia e del potere. Ma gli indios e i neri, gli eredi degli schiavi (4 milioni ne arrivarono in Brasile dall’Africa, ricordano i narratori) che lo sono ancora de facto per la miseria e lo sfruttamento patiti.
In un palco spoglio, con solo un paio di scrivanie che alludono a cattedre per questa lezione teatrale di anticolonialismo, dietro ai quattro attori si staglia un grande schermo diviso in tre parti che occupa il fondale della scena. I 4 interpreti, 3 donne e un uomo (Gal Pereira, Juliana França, Caju Bezerra, Aduni Guedes), dopo il prologo drammatico commentano e raccontano le scene del docufilm proiettato alle loro spalle, con al centro membri delle comunità di Remanso e Iúna – Chapada Dimantina/Bahia/Brasile: uomini e donne che ricordano i “villani” di Nuto Revellinel primo dopoguerra. La vicenda prende forma dal romanzo Torto Arado (Aratro ritorto) di Itamar Vieira Junior – che narra le battaglie di tre donne nello stato di Bahia –, e dal documentario di Eduardo Coutinho, Cabra marcado para morrer (Un uomo segnato dalla morte), dedicato all’omicidio del leader di un sindacato rurale.
Il video panoramico ha un effetto quasi immersivo, forse per aumentare nello spettatore l’urgenza di una scelta di campo. Solidarizzare con la storia insanguinata e reale qui narrata o respingerla, tertium non datur. È il salto della tigre a cui allude Walter Benjamin in una delle sue Tesi di filosofia della storia, in cui avverte come non esista una storia oggettiva ma solo quella, conflittuale, di oppressori e oppressi. Spiando i volti dei presenti in sala si ha l’impressione che buona parte del pubblico sia alle prese proprio con un conflitto interiore, e qui torniamo alla questione del popolo. I poveri contadini sfruttati di Diamantina (e i milioni di loro compaesani nel resto del Brasile, ma potremmo scrivere dell’America Latina in blocco e non cambierebbe molto) nulla hanno a che fare con la distrattiva querelle intorno al “popolo italiano”, popolo (ma esiste ancora? È mai esistito?) che, al fondo, nel complesso non può certo dire di vivere una situazione paragonabile a quella vissuta dalla gente di Diamantina.
La battaglia di Jatahy è quindi doppia: dare voce, resistenza e memoria alla storia passata e presente delle comunità indigene (Yanomami e altre) e nere brutalizzate dal potere, e risvegliare nello spettatore la scintilla della consapevolezza: “Ehi turista, ecco il deep country, il paese profondo, che soffre mentre tu ti fai i selfie sulle spiagge!”. Tutti noi, bianchi urbani e acculturati di ogni paese, ci scopriamo sgradevolmente dalla parte degli eredi e continuatori del colonialismo. È lo scotto da pagare allo spettacolo, che tratta da complice chiunque accetti il sistema e ne faccia parte, anche maldestramente, rispetto a ai reietti di Bahia, gente da espellere anche fisicamente dalla società.
La nostra colpa è di sorvolare sul silenzio degli oppressori non parlando di quella che, in altri contesti, è stata chiamata una “politica genocidaria” verso il popolo brasiliano. Il silenzio sanguinoso degli indios è invece quello della loro lingua strappata dalla violenza neocolonialista, che reprime da sempre ogni tratto identitario nativo. L’aspetto fisico, la cultura, la musica, le parole… tutto è brutalmente estirpato dai pronipoti dei conquistadores europei. Al tempo, i primi a instaurare il cristianesimo come religione unica soffocando il panteismo naturale dei nativi. E i cui eredi, oggi, impongono una pan-globalizzazione – estetica, religiosa, economica, sociale: in breve, politica – ai danni dei loro pronipoti.
Questo silenzio drammatico, di stasi, è rotto dalla rabbia, cantata e urlata dai 4 interpreti, per interrompere la dolente rassegnazione dei contadini, chiamati a destarsi e a ritrovarsi uniti nella memoria degli uccisi in nome della lotta per non farsi scacciare dalle terre e per mantenere la cultura degli antenati. Lo spettatore non vorrebbe essere nei panni dei vinti ma non può non avvertire che la “loro” umanità derelitta sprigiona una grazia che noi occidentali forse abbiamo smarrito per sempre. Jatahy sembra esplorare in scena la poetica di Terrence Malick, abile nel saper colorare il mondo con lo sguardo dei ragazzi e degli indios in due suoi film recenti (The Tree of Life e The New World): creature innocenti prima (o nel mentre) di perdere l’innocenza.
Ed ecco l’epifania dello spettacolo: far sentire noi i veri sconfitti, rimpiccioliti dal nostro sguardo afflitto di gente che vive in un mondo sempre più ostile e invivibile senza uno straccio di forza e visione per cambiarlo. La comunità derelitta e forzatamente anti-tecnologica dei contadini appare paradossalmente più in salute e integra della nostra, imprigionata nel gorgo solipsista hi-tech. Cucina comunitaria, musicoterapia sciamanica (il Jaré), amore per la natura e la vita e cura reciproca, trionfano contro moltitudini-solitudini governate da device gerarchizzanti e da riti edonistici fini a se stessi.
Questo (e molto altro) è Depois do silêncio, opera che prova a spiegare che c’è comunità solo se a fondarla è una lotta condivisa. La politica torna al centro perché agli indios e ai neri interessa vivere liberi e sovrani, contro uno stato che li minaccia e uccide (come i due attivisti da cui parte lo spettacolo, assassinati dai sicari padronali).
La miscela docufinzionale di Jatahy viene fatta detonare in scena dai quattro narratori, che mischiando alla storia le loro vicende personali, vere o inventate poco importa, scardinano le nostre difese. Il viso pallido (nomignolo ottocentesco degli indiani nordamericani per i bianchi) non può non avvertire di essere lui quello privo di una comunità funzionale, di non avere un progetto difendibile, una cultura forte e una lingua vivente. Il viso e cuore pallido ha accettato che la modernità cancellasse ogni tratto identitario e autentico di sé e dei popoli sottomessi. Depois do silêncio ci scuote ricordandoci che la lotta non è finita e non finirà mai, “anche a costo di dover uccidere”. Finché la terra non sarà restituita e giustizia fatta. La nuova utopia è dolore, carne, lotta, parole e musica. E uno strano sentore di disperata felicità. E anche lo spettatore-indio ha la sua possibilità di riscatto e rinascita, a patto che rompa il silenzio diventando membro solidale delle ultime comunità native del globo.
Depois do silêncio (Dopo il silenzio)
di Christiane Jatahy
dal romanzo Torto Arado di Itamar Vieira Junior, pubblicato da LeYa
ideazione, regia e testo: Christiane Jatahy
con Gal Pereira, Juliana França, Caju Bezerra, Aduni Guedes e, per il film, la partecipazione di Lian Gaia e dei residenti delle comunità di Remanso e Iúna – Chapada Dimantina/Bahia/Brasile.
Collaborazione artistica, scene e luci: Thomas Walgrave
foto e video: Pedro Faerstein
musica originale: Vitor Araujo e Aduni Guedes
sound design e mixing: Pedro Vituri
suono (film): Joao Zula
montaggio (film): Mari Becker e Paulo Camacho
costumi Preta Marques
collaborazione al testo Gal Pereira, Juliana França, Lian Gaia e Tatiana Salem Levy
interlocuzione Ana Maria Gonçalves
sistema video Julio Parente
preparazione fisica Dani Lima
assistente alla regia Caju Bezerra
direttore di scena e del suono Diogo Magalhaes
assistente alle luci Leandro Barreto
direttore video Alan de Souza
tour manager Claudia Marques
amministrazione Claudia Petagna
direttore di produzione e distribuzione Henrique Mariano
sono presenti riferimenti e immagini da Cabra marcado para morrer di Eduardo Coutinho, produzione Mapa Filmes
produzione Cia Vertice – Axis productions
coproduzione Schauspielhaus Zürich, CENTQUATRE-Paris, Odéon-Théâtre de l’Europe – Parigi, Wiener Festwochen, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, ArtsEmerson – Boston, Riksteatern – Svezia, Théâtre Dijon-Bourgogne CDN, Théâtre National Wallonie- Bruxelles, Théâtre Populaire Romand – Centre neuchâtelois des arts vivants La Chaux-de-fonds, DeSingel – Anversa, Künstlerhaus Mousonturm – Francoforte, Temporada Alta – Festival de tardor de Catalunya, Centro Dramático Nacional – Madrid
Christiane Jatahy è artista associata a CENTQUATRE-Paris, Odéon-Théâtre de l’Europe, Schauspielhaus Zürich, ArtsEmerson Boston e Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Cia Vertice è supportato dalla Direction régionale des affaires culturelles Île-de-France – Ministère de la Culture France
Tour realizzato con il sostegno di CENTQUATRE on the road
Per addentrarci nello spaesamento originato dalla visione di “Ritratto dell’artista da morto – Germania ’41 e Argentina ‘78”, scritto e diretto da Davide Carnevali e in scena al Piccolo Teatro Studio Melato fino al 6 aprile, partiamo da questo brano dell’introduzione allo spettacolo scritto dall’autore: “Scrittura come tentativo continuo di descrivere l’indescrivibile; scrittura come un perpetuo fallimento di se stessa. Eppure, nonostante la consapevolezza di questo fallimento, non riesco a smettere di scrivere. Forse è perché è proprio il fallimento ciò che ha senso in questa scrittura. Forse il teatro mostra che la scrittura è destinata a fallire di fronte alla vita; ed è per questo che la scrittura non può essere ignorata, non può essere esclusa dalla vita”.
La cosa all’apparenza buffa, è che la scintilla da cui parte l’idea creativa, spiega Carnevali aprendo il fondo, ammesso che ne esista uno, della sua scrittura, arriva da un gol, così bello da uccidere le parole, di Leo Messi, el diez dell’Argentina Campione del Mondo. Naturalmente la scintilla è tutt’altro che buffa… è solo molto argentina, un paese che più di altri sprofonda nel reale e nel verosimile in maniera ondivaga: sacra e profana, alta e bassa, senza mai la pretesa della verità risolutiva, della vocazione univoca. Il più bel gol di Messi può valere l’Aleph di Borges o i racconti soprannaturali di Julio Cortazar, o i fantasmi di Ernesto Sabato. E in questo paradosso c’è la prima traccia dello spaesamento che sorge dall’allegra tristezza dell’alma argentina e dello spettacolo di Carnevali, che è quindi un interessante fallimento parafrasando le sue parole.
Ora, resta da capire se questo fallimento interessante sia anche necessario. “Ritratto dell’artista da morto” può essere inquadrato come un’allegoria barocca (il riferimento alla tesi di Walter Benjamin è voluto) ma al posto del dramma barocco tedesco bisogna metterci la Storia – due cruente dittature novecentesche: nazifascismo in Europa e dittatura dei militari nel paese del sole che ride – e l’anima argentina nella sua concrezione rioplatense, ovvero quella coagulatasi intorno al Rio de la Plata, il gigantesco estuario dei fiumi Uruguay e Paranà tra Buenos Aires e Montevideo-Uruguay: bagnata da un’acqua infinita di un colore tra il marrone tabacco e l’azzurro polare.
Da Montevideo proviene una delle versioni più riuscite e celebrate dell’autoficción (quella di Sergio Blanco per intenderci), e guarda caso l’auto-finzione è la cifra strutturale e stilistica della pièce di Carnevali. Michele Riondino, monologante in scena, parte (e torna) sempre da se stesso, dal suo essere un attore con un’identità luminosa ma sgualcita, un fallito di successo insomma: attore televisivo di un’opera mainstream come Il giovane Montalbano e al contempo incazzato militante, compagno di lotte perdenti dei suoi conterranei tarantini per l’ex Ilva.
Venendo alla scenografia, nella parte posteriore del palco c’è un appartamento semplice, una parete verdognola con uno spazio sverniciato rettangolare, una scrivania di legno chiaro, una poltrona di design nordico anni ‘40 di colore blu; e poi una cucina, uno stendino con dei panni, una libreria con spartiti musicali e una videocamera. A sinistra, un pianoforte e nel grande ovale antistante alcune casse di legno di scena, che rafforzano l’idea della precarietà e della riscrittura. L’onnipresenza della videocamera aiuta a collocarci bene nel nostro tempo, che è quello dell’autorappresentazione tramite video. Carnevali già nei suoi lavori precedenti (“Ritratto di donna araba che guarda il mare” ad esempio) ha usato il video live e i modellini di scenografia miniaturizzata per giocare con uno sguardo che si innalza e oggettiva la vicenda.
Riondino racconta la “sua” storia verosimile, resa più accattivante dalla scelta della detective story: da un misterioso telegramma ricevuto “realmente” durante un soggiorno a Milano, decide con Carnevali (che ha vissuto a lungo in Argentina), di volare a Buenos Aires per scoprire cosa c’è dietro la stranissima querelle legale intorno a un appartamento conteso tra un certo Reondino e una famiglia locale. Il monologante racconta l’esperienza a Buenos Aires come se il pubblico non sapesse nulla o quasi della questione dei desaparecidos e della dittatura. Torna indietro nel tempo, al 1978, a quando si giocò il Mundial di calcio e l’Argentina dei generali vinse il torneo tra le polemiche, perdendo l’unica sua gara contro la nazionale italiana.
Il pasticciaccio diventa brutto, Riondino va avanti nel racconto giocando col suo personaggio del commissario televisivo: dice di essere stato scortato da un tenebroso poliziotto a bordo di una Ford riverniciata di rosso ma in realtà verde, proprio come quelle usate dai militari per prelevare gli oppositori, e da questo viene controllato (così come dalla vicina e dal portinaio dello stabile). Nella casa, in cui si reca tutti i giorni restandoci a lungo, non trova tracce di Reondino ma di un compositore, un certo Gianluca Misiti, che risulterà essere un espatriato italiano fuggito dall’Italia per le sue origini ebraiche e poi scomparso nel 1941, forse catturato. Riondino non capisce la relazione tra la casa, se stesso, il donatore scomparso Reondino, e il compositore, tra il 1978 e il 1941. Ma avverte un clima di mistero e sospetto.
In questo clima (non) scopriremo chi è veramente Misiti, e quale relazione ci sia tra l’autore, l’interprete e il pubblico, chiamato in scena nel finale per toccare con mano, smettendo di assistere passivamente, la consistenza della rappresentazione. Ma qui ormai siamo in un gioco di paradossi simile a quello creato dal borgesiano Zahir, l’illusionista che convince gli altri della sua esistenza. La sfida di Carnevali-Riondino è farci credere a questa relazione postuma con la Storia, e con due dittature. Farci credere che scendendo in scena, facendo parte della rappresentazione il pubblico possa dare più legittimità al fallimento della trasmissione del dato storico. Ora, cerchiamo di capire se la ragione del fallimento della scrittura e della legittimità della pièce sia quella chiamata in causa dall’autore – “Scrittura come tentativo fallimentare di descrivere l’indescrivibile” –: il gol di Messi, la relazione del monologante-questionante con un appartamento in Buenos Aires. Scrittura come tentativo fallimentare di intessere una relazione con la Storia e il passato. Carnevali e Riondino, chiamando in causa il pubblico e annunciando la morte del regista, provano a rendere questo fallimento vivente, ovvero una relazione – LA relazione fondativa dell’essere teatro.
Ancora con le parole di Carnevali sul testo: “Solo in teatro risulta evidente che la parola è una cosa e ciò che avviene è un’altra; ed è evidente, dunque, che il linguaggio non aderisce perfettamente alla realtà: anzi è, esso stesso, una realtà a sé. E solo in teatro lo spettatore fa un’esperienza reale di questa evidenza. Ma perché sia evidente questa insufficienza del linguaggio verbale, perché la parola fallisca, è ancora necessario che ci siano linguaggio e parola. Un linguaggio che prova a dire ciò che non può essere detto e una parola che si offre e si ritira, che lotta e viene sconfitta. Ecco perché è interessante che il teatro passi ancora per il testo, materiale linguistico preteatrale, prodromo allo spettacolo: affinché sulla scena la parola possa morire nella sua testualità e risorgere nella sua performatività”.
Una lunga chiosa in cui Carnevali, senza dirlo, afferma che il teatro è una forma di “sapere” antagonista al logos (storico), perché tiene conto della parola che scompare, che muore mentre avviene. E questo spiega anche l’allegra tristezza che proviamo uscendo dal suo spettacolo, con l’occhio e l’anima convinti di aver trovato qualcosa ma senza la capacità di individuarlo e farne parola. Non certo la verità sulle dittature e neanche la consolazione che sapendole già state, esse non accadranno mai più. Non siamo certi che Carnevali-Riondino sia riuscito a fondare una relazione necessaria tra il 1978 (Argentina dittatura) e il 1941 (Europa nazista): c’è chi ha lavorato sulla memoria con altri presupposti e con enormi cautele e precauzioni (uno su tutti: Marco Bechis, che ha scritto e fatto docufilm rigorosi sulle dittature, tra cui “Il rumore della memoria”, documentario in cui Vera Vigevani Jarach narra la sua storia di ebrea italiana fuggita in Argentina nel 1938 per le leggi razziali, e poi di madre di un giovane desaparecido: ma anche Bechis è un desaparecido scampato, fuggito da Buenos Aires poco prima di finire nella rete dei militari). Non siamo sicuri e probabilmente neppure lui, e forse per questo sceglie di morire nel testo. La machine téatrale autofinzionale galoppa e si avvita su stessa senza più regia, come un gorgo del maelstrom, rivelando quello che è il suo vero scopo. Non dire qualcosa in più sulla Storia, per quanto l’interesse per essa appare autentico, sincero. Carnevali forse sa e ammette di non potersi relazionare veramente con la storia se non tramite il teatro. Ma che cos’è il teatro per lui?
A Carnevali interessa il teatro come luogo di confine, come ring in cui la scrittura rivela un sapere ambivalente, prelogico e allo stesso tempo postumo. Un teatro in cui il sapere gronda dal sacrificio dell’ego, dell’io scempiato in scena, anche se qui si sorride, forse è un sacrificio metaforico, non cogente. La pièce termina con la fondazione di un’istituzione museale, con una metamorfosi dell’appartamento. Ovvero con la sua reificazione, con la trasformazione in cosa eterna ma fredda. Carnevali, lo ripetiamo, non pare interessato a questo, alla trasmissione viva della storia: quanto alla storia che rinasce come fantasma nel gesto del teatro come rito che unisce alto e basso, città e acqua, Messi e Borges. E forse, anche Europa 1941 e Argentina 1978, ma solo come entità spettrali.
La necessità di “Ritratto di un artista da morto” non è quindi risolta in un senso o nell’altro. Da qui lo spaesamento di un’opera che non appare riuscita ma neanche deragliata. Poeticamente vive come acqua dolce e salata, quella dell’estuario rioplatense, accende di curiosità ma l’orrore per il suo abime resta limaccioso, indistinto. Non c’è un esito, e qui si torna e concludiamo, a un plaisir du text alla “Entretien infini” di Maurice Blanchot, all’ermeneutica drammaturgica che si perde per sempre dentro il suo testo senza però lutti.