Ivan Orsini Karamazov, o l’inquieto esistenzialismo dell’attore da vecchio

Può un attore imparare su se stesso da un suo personaggio? E può questo attore liquidare per sempre questo personaggio?

Non c’è una sola risposta ma il tentativo di “perlustrare la soglia della domanda”, o meglio il dirupo, come si diceva con una certa filosofia novecentesca, lo compie Umberto Orsini nel suo ultimo spettacolo, il monologo “Le memorie di Ivan Karamazov al Piccolo Teatro Grassi. Come uno specchio silente ma vivo, Orsini si confronta di nuovo, per la terza volta, con uno dei personaggi più inquietanti della grande letteratura, quell’Ivan Karamazov protagonista dell’ultimo romanzo di Fedor M. Dostoevskij.

Ivan-Orsini è imprigionato in un “metaverso” drammaturgico, in una dimensione che non esiste: come un novello Sisifo, è condannato a rispondere all’infinito all’inquisitoria sui fatti che hanno portato all’assassinio del padre. Ivan non ne è materialmente colpevole, ma forse lo è ancora di più perché ha istigato con la sua “amoralità” all’azione il “demente” fratello Smerdjakov.

Ma non solo: Ivan-Orsini è invecchiato in questo non-luogo, il tempo resta come unica condizione che annichilisce tutto. Lo spettacolo vive di un preambolo introduttivo, della rievocazione del racconto del grande inquisitore e dell’esodo finale. In scena Orsini appare terribilissimo nei panni del nichilista invecchiato: unico vezzo, la tuba sopra panni polverosi, accolto da una quinta di una chiesa diroccata. Solo scarni coup de theatre accompagnano lo sfogo di Ivan, il tutto sapientemente calibrato dal regista Luca Micheletti.

Se Dio non esiste, vale la pena vivere? Vale la pena vivere rettamente? Ivan Orsini Karamazov ha sublimato il nichilismo giovanile in un récit che dice molto dell’animo russo ed europeo. Il Grande Inquisitore non è un credente e odia Cristo tornato tra i vivi, e mentre cerca invano di mandarlo sul rogo, scruta nel suo stesso animo se esista da qualche parte un barlume di fede.

Orsini in un momento dello spettacolo

Ma non la trova se non nel bruciore del bacio sulle labbra che schiocca al Redentore tornato per una notte sulla terra. E lo lascia libero di andare. Non odia più Karamazov ma il Grande Inquisitore ci dice come l’Europa sia ancora vittima del suo incantesimo nichilista: per paura del vuoto cosmico, gli uomini fingono di legarsi alla religione consegnandosi a un potere che strangola per sempre la loro libertà. Ma non accade costantemente in tutte le pulsioni autoritarie di ritorno a cui stiamo assistendo?

Ecco che la libertà, bene supremo donato agli uomini, è diventato il fardello supremo: gli uomini non sanno portarne il peso, preferiscono sottomettersi a un qualsivoglia potere.

Il vecchio Ivan Karamazov, “uomo cattivo come tutti”, non è altro che il modello di un eroe antinomico, un antieroe che ha provato il peso vertiginoso della libertà venendone schiacciato. L’attore da vecchio, Orsini, anche lui come Sisifo, torna sui suoi passi e sui suoi personaggi. La sua libertà è proprio questa, di accettare la vita, il tempo, la morte e di trattare coi suoi fantasmi.

Eccezionale la prova di questo attore 88enne, che assomma maestria, voglia di vivere e di essere ancora importante, senza lifting ma solo esibendo la sua carne di uomo di palcoscenico azzannata dal tempo.

Chiedetevi questo: fa più paura il cattivo nichilista Karamazov che non smette di interrogarsi (e tormentarsi) o il gregge che fingendo di credere spegne ogni forma di senso critico e si consegna alla morale dominante?

Umberto Orsini nei panni di Ivan Karamazov